Nomadland – La recensione del film di Chloé Zhao

Nomadland

“L’evoluzione ci ha voluto viaggiatori” scriveva Bruce Chatwin in Anatomia dell’irrequietezza. “Dimorare durevolmente, in caverne o castelli, è stata tutt’al più una condizione sporadica nella storia dell’uomo. L’insediamento prolungato ha un asse verticale di circa diecimila anni, una goccia nell’oceano del tempo evolutivo. Siamo viaggiatori dalla nascita.”

Iniziare un discorso su Nomadland citando Chatwin è fin troppo semplice, d’accordo, ma le sue parole descrivono bene l’istinto ramingo di Fern e degli altri nomadi, indipendentemente dalle loro condizioni economiche. Il personaggio di Frances McDormand ha perso il lavoro durante la Grande recessione del 2008, dopo che l’impianto della US Gypsum di Empire, in Nevada, è stato chiuso. Il marito, impiegato nel medesimo stabilimento, è scomparso da poco, e Fern ha deciso di cambiare vita: ha comprato un furgoncino ed è partita in viaggio attraverso gli Stati Uniti, cercando lavori stagionali che le permettono di sopravvivere. Come dice lei stessa, non è una senzatetto (homeless), ma una senzacasa (houseless). Il suo tetto – la sua home, intesa come luogo a cui si riconosce familiarità, appartenenza e protezione – è il furgoncino stesso, una casa itinerante che la accomuna a tantissimi altri vagabondi delle strade americane. Per alcuni è solo un metodo di sopravvivenza, per altri una scelta di vita, per altri ancora è entrambe le cose. La crisi dei mutui subprime, scoppiata direttamente nelle loro mani, li ha lasciati insolventi e senza un posto dove stare, quindi si sono dovuti inventare un modo alternativo di stare al mondo, in realtà molto più antico rispetto alla sedentarietà.

Sarebbe stato facile costruirci sopra un monumento di retorica e patetismo, ma non è questo il mestiere di Chloé Zhao. La regista cinese, trasferitasi negli Stati Uniti da adolescente per motivi di studio, prova sempre un’intima connessione con i suoi personaggi, celebrando una solidarietà umana che varca ogni confine di etnia e nazionalità: che si tratti di un giovane Lakota ansioso di fuggire dalla sua riserva (Songs My Brothers Taught Me), o di un cowboy che deve rinunciare alla sua massima vocazione (The Rider), Zhao riversa in loro una verità del tutto personale, che risale alla sua infanzia in Cina e alla sensazione di trovarsi fuori posto. Tale irrequietezza si riflette anche in Nomadland, ed è il tratto distintivo di chi sceglie di vivere viaggiando. Un’esistenza che in alcuni casi significa sopravvivere, ma Zhao non fa alcun pietismo; al contrario, ne valorizza la dignità silenziosa e la ricerca di alternative concrete alla vita stanziale.

I nomadi del film, con i loro mezzi dai nomi ironici o fiammeggianti, sono la polvere sotto il tappeto del capitalismo americano, i fantasmi di una classe lavoratrice che ha voluto – e in alcuni casi dovuto – mettere un piede fuori dal sistema. Esistono su un diverso piano di realtà, hanno regole proprie, organizzano feste e ritrovi fra pari dove si scambiano dritte, conoscenze, insegnamenti e oggetti di uso comune (il baratto come reazione più naturale al potere economico appena collassato). Attorno a loro, gli orizzonti di un’America sconfinata sembrano promettere vagabondaggi infiniti: si stagliano alle spalle di Fern come premonizioni di un futuro in perenne movimento, perché la strada finisce solo quando si smette di viaggiare, e i nomadi non si rivolgono mai addii definitivi. D’altra parte, nel cinema di Chloé Zhao il paesaggio è inscindibile dalle condizioni sociali dei personaggi. La desolazione ambientale corrisponde spesso a uno smarrimento interiore, la vastità degli spazi mette in soggezione. In Songs My Brothers Taught Me e The Rider, i paesaggi erano lo specchio malinconico di due protagonisti in trappola, mentre in Nomadland sono la costante promessa di nuove mete: chi ha perso tutto, non ha più nulla da perdere. Tanto vale partire.

Quello di Chloé Zhao si conferma un cinema di indagine umana e sociale, più vicino al reportage (pur essendo fittizio) che alle sceneggiature blindate della tradizione americana. L’omonimo libro di Jessica Bruder, originato da un’inchiesta giornalistica sul campo, è un campionario di storie vere che la regista cinese traspone sullo schermo per calare Fern in un contesto reale: Linda May, Bob Wells e gli altri non sono altro che loro stessi, e Zhao si dimostra ancora formidabile nel ricavare il meglio da attori non professionisti. È anche grazie a loro che il film prende una cadenza episodica, perché un viaggio è fatto di tappe consecutive che costruiscono un percorso più grande. Zhao lascia che si dipani per gradi, attraverso momenti contemplativi dove il dialogo tra l’individuo e il paesaggio è più intenso degli scambi verbali. “La vera casa dell’uomo non è una casa, ma la Strada”, scriveva ancora Chatwin. Ebbene, Nomadland lo ribadisce fino alla fine, quando il ritorno al punto di partenza è solo una scusa per ripartire ancora.