lunedì, 25 Novembre 2024
Parla la moglie di Attanasio: «Voglio la verità ma ho paura che qualcosa venga nascosto»
Sono passati ormai più di otto mesi da quella tragica mattina nella quale l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio, perse la vita insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo sulla strada che va da Goma a Rutshuru, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, e tutto o quasi tace. Se l’Italia non ha mai smesso di indagare sugli esecutori e sui possibili mandanti del barbaro omicidio sia il Congo che Il Programma alimentare mondiale dell’ONU ( PAM) tacciono da mesi e le famiglie di coloro che sono caduti restano senza risposte. Salvatore Attanasio, padre di Luca, nelle scorse settimane intervistato da Radio 24 e da Repubblica ha ribadito le sue preoccupazioni sullo stato delle indagini «Più il tempo passa e più si rischia l’insabbiamento. Abbiamo bisogno di uno Stato con la schiena dritta che non si genufletta davanti alle grandi potenze come l’Onu» che sempre secondo l’Ingegnere Attanasio «Si trincera dietro lo scudo dell’immunità. L’Onu è un colosso e ci sono delle forti resistenze. Per i nostri inquirenti è difficile anche solo interrogare i funzionari Pam. Io mi fido dei Ros. Ma sono davanti a un muro di gomma».
Uno stallo inaccettabile non solo per le famiglie delle vittime ma per l’Italia che oggi a fronte del muro di gomma eretto ha solo un’opzione; portare il caso davanti all’Unione Europea che si faccia carico e obblighi l’ONU a smetterla di fare ostruzionismo. Lo deve alla famiglia di Luca Attanasio, alle sue tre figlie alla moglie, e lo stesso vale per le famiglie delle altre vittime e la verità la deve sapere anche il popolo italiano. Noi di Panorama ci siamo più volte occupati della vicenda e continueremo a farlo e a proposito di questo abbiamo ascoltato Zakia Seddiki moglie di Luca Attanasio che a otto mesi dalla tragedia non si capacita di quanto accaduto.
Cosa ci faceva suo marito quel maledetto 22 febbraio 2021 nell’area del villaggio di Kibumba vicino alla città di Goma e cosa aveva fatto nelle ore precedenti?
«Luca era li perché aveva risposto ad un invito del PAM (Il Programma alimentare mondiale dell’ONU) perché volevano mostrargli un progetto uguale a quello che sarebbe stato finanziato dalla cooperazione italiana in un’altra zona. La sera prima? Aveva incontrato in una cena ufficiale degli italiani che vivevano in quella zona della Repubblica Democratica del Congo».
Torniamo a quella mattina, perché in quella che è una delle strade più pericolose al mondo non vennero rispettate le disposizioni in materia di sicurezza?
«Io non ho spiegazioni e aspetto delle risposte ma ciò che so è che quella mattina i protocolli di sicurezza non sono stati rispettati. Prima di partire Luca aveva chiesto mille volte <> Gli avevano risposto che <>. Lui si è fidato di quello che gli era stato detto dai funzionari dell’ONU e d’altronde chi non si sarebbe fidato di un’organizzazione così grossa e importante».
Suo marito aveva mai ricevuto minacce dirette o indirette? Le aveva mai detto qualcosa?
«Mai. Luca era sereno anche quella mattina; ci sentimmo telefonicamente 20 minuti prima di partire e non aveva timori».
Si è detto e scritto che suo marito si interessava anche a cose che esulavano del suo mandato, ad esempio, la condizione di coloro che lavoravano nelle miniere della zona. È così?
«Luca era un uomo che svolgeva la sua missione di ambasciatore mettendo al centro gli altri, era molto vicino ai missionari che operano in Congo e credeva fortemente che fosse giusto impegnarsi per la pace e la solidarietà tra i popoli. A proposito delle miniere è vero che si interessava alla questione ma solo relativamente alle persone che aiutavano i bambini che vengono sfruttati. Non indagava, non era certo il suo lavoro. Cercava di favorire progetti di cooperazione a favore di questi bambini. Nulla di più».
Lo Stato italiano lo sentite vicino? E dal Congo che ha più volte annunciato degli arresti, avete più ricevuto notizie?
«In Italia le indagini sono in corso ed io mi fido perché il nostro Paese ha perso due suoi figli Luca e il carabiniere Vittorio Iacovacci che lavoravano e rappresentavano l’Italia portando avanti i valori del popolo italiano e questo lo hanno fatto fino all’ultimo istante della loro vita. Sull’Italia non ho dubbi. Il Congo? Per quanto ne so le indagini per loro sono chiuse…»
Per quanto riguarda l’ONU possibile che a otto mesi dai fatti non si siano fatti passi avanti su quanto accaduto e sulle responsabilità di chi doveva occuparsi della scorta al convoglio del PAM?
«Come ho detto, le indagini sono ancora in corso e mi auguro che l’ONU abbia fornito e fornisca la massima collaborazione per individuare i responsabili di quanto accaduto. Ho però il timore che qualcuno possa avere qualcosa da nascondere e che non può essere detto».
Quindi l’ONU nasconde la verità?
«Non lo so. Spero di no. Possiamo però farci la domanda sul terzo italiano che era con Vittorio e Luca quella mattina. Si chiama Rocco Leone e mi chiedo dov’è finito quello che per me è il vero testimone di quello che accadde e perché è scomparso? Ha fornito tutti gli elementi di cui è certamente a conoscenza per consentire di ricostruire l’accaduto? Non aggiungo altro perché le indagini sono in corso ma le mie sono domande lecite».
Lei ha scritto «Non è il numero di anni di una vita che conta, ma la vita che c’è in quegli anni. Siamo tutti di passaggio; è meglio rendere questo breve passaggio qualcosa di utile per gli altri. Come ha fatto Luca, che ha dato senso alla sua vita e anche alla sua morte». Le chiedo perché è morto suo marito, cos’è successo?
«Luca non doveva morire quella mattina, io a distanza di oltre otto mesi ancora non ci credo che sia successo. Non doveva andare così. Ora voglio la verità».