mercoledì, 27 Novembre 2024
Putin alza i toni per coprire falle interne e in Ucraina
«Vogliono isolarci, ma non ci riusciranno» è ormai il solito refrain che Vladimir Putin rifila alla stampa internazionale in occasione dei summit economici. L’ultimo, quello che lo ha visto protagonista della «Davos orientale», la sessione plenaria dell’Eastern Economic Forum (Wef) di Vladivostok, è però molto indicativo dei timori che il presidente della Federazione Russa nutre nei confronti dell’Occidente, e specificatamente della volontà di respingere efficacemente le politiche violente di Mosca e la sua offerta energetica.
«Mi riferisco all’entusiasmo per le sanzioni in Occidente e ai suoi tentativi aggressivi di costringere altri Paesi verso il suo modello di comportamento, di derubarli della loro sovranità e imporre loro la sua volontà» ha tuonato Putin, visibilmente irritato.
Il timore del leader russo ha origini lontane. E affonda le radici nella chiacchierata che ebbe con Henry Kissinger agli albori della sua ascesa. «Pensavo che l’Unione Sovietica non dovesse ritirarsi così in fretta dall’Europa dell’Est… ancora non capisco perché Gorbaciov abbia fatto quel che ha fatto» gli riferì il più celebre dei Segretari di Stato americani, commentando le mosse dell’ultimo segretario del Pcus che portarono alla dissoluzione dell’Urss.
Kissinger era consapevole che quello fosse un trauma per l’intera Russia, e in particolare per Putin. Il quale infatti gli rispose: «Avremmo evitato un sacco di problemi senza quella precipitosa fuga in avanti». Il suo pensiero da allora non è mai cambiato, al contrario dell’atteggiamento verso l’Europa, alla quale Putin ha sempre guardato, e al cui treno voleva agganciarsi per esserne parte integrante.
«Noi siamo parte della cultura europea occidentale. In questo risiede il nostro valore principale. Dovunque vivano i nostri, in Estremo Oriente o nel sud del Paese, noi siamo europei. Faremo di tutto per restare dove siamo» riferì a Kissinger. Ma al tempo stesso, sentendo se stesso pronunciare quelle parole così concilianti, ebbe un moto di stizza pensando che forse questa sua apertura sarebbe stata letta come una debolezza. Infatti, preconizzando un rifiuto a essere accolto nel «club» occidentale, aggiunse: «Se l’Europa ci respinge, faremo delle unioni per diventare più forti».
Questo nervo scoperto lasciava trasparire già allora tutta l’invidia che Putin ha sempre nutrito nei confronti degli europei. Perché, in fondo, come hanno scritto gli autori del saggio francese del 2016 Vladimir Poutine Première Personne, «lui cerca interlocutori stranieri, visto che i suoi non li stima. Eppoi i russi non sono molto più dipendenti da noi di quanto lo siamo noi da loro. In senso economico, psicologico e geopolitico».
Si spiega forse anche così il suo attivismo forsennato degli ultimi giorni. Dopo Vladivostok e le esercitazioni militari congiunte con la Cina, la sua diplomazia ha organizzato un incontro con il presidente cinese Xi Jinping. Si terrà la prossima settimana in Uzbekistan, a Samarcanda, in occasione del summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) del 15 e 16 settembre, che farà da cornice al primo faccia a faccia tra i leader di Cina e Russia dall’invasione (l’ultima volta che i due presidenti si erano incontrati era stato pochi giorni prima che Putin annunciasse la «operazione militare speciale»).
È dunque così che, per uscire dall’angolo nel quale si è costretto il suo Paese, Putin si trova a corteggiare anche il leader turco Recep Tayyip Erdogan, con il quale intende discutere l’apertura di un nuovo fronte economico: dopo il gas, il grano. Il presidente russo ha annunciato infatti l’intenzione di limitare l’esportazione, dopo gli idrocarburi, anche del grano e del cibo dall’Ucraina all’Europa, «poiché non viene inviato ai Paesi più poveri che ne hanno bisogno».
Se ufficialmente le ragioni sono umanitarie (e verrebbe quasi da sorridere, se la cosa non fosse tragica), è evidente che Mosca abbia ben compreso che l’Europa è determinata e si prepara sul serio a fare a meno del partner russo per i prossimi decenni. Di conseguenza, ha ragione di temere per l’economia e la stabilità della Russia. La frase «Vogliono isolarci, ma non ci riusciranno» discende proprio da questo timore. Quello cioè di lasciare come eredità politica e personale, una Russia più sola e relegata al rango di potenza di second’ordine. Ovvero di replicare l’incubo che ha già vissuto tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta (come ci si poteva aspettare che incensasse Gorbaciov, quindi, dopo la sua morte?).
A guardare l’andamento attuale dell’economia russa e l’alta probabilità di una crisi – la cui portata è però imprevedibile – Putin ha più di una ragione per voler negare l’evidenza. Al momento, la sua verità ufficiale è che isolare la Russia, come ha ribadito alla platea dell’Eastern Economic Forum di Vladivostok, «è impossibile». Un tentativo che fallirà, ne è convinto il leader.
Intanto, però, si spinge opportunamente tra le braccia asiatiche, dove il futuro sembra meno tempestoso. Anche se i clienti asiatici non possono certo sostituire l’Unione Europea, che era e resta il maggior acquirente – e di gran lunga – dell’energia russa.
Parimenti, Putin sembra attuare una politica di rimozione della realtà, asserendo che «il 24 febbraio Mosca non ha iniziato nulla», ma semmai proseguito un obiettivo di lunga data. E dicendosi certo che «respingeremo tutto quanto ci danneggia e ci ostacola. Accelereremo il ritmo dello sviluppo, perché oggi lo sviluppo può basarsi soltanto sulla sovranità. Ogni passo andrà in direzione di un rafforzamento di questa sovranità».
Insomma, l’impressione è che quando l’animale è ferito si agita e compie atti inconsulti. E infatti, secondo fonti non verificabili, i russi avrebbero già iniziato a cercare forsennatamente materiali e componenti per l’industria nazionale, bloccati dalle sanzioni ovunque. Finanche smontando gli aerei e i macchinari obsoleti per recuperare ciò che serve. Come i componenti dell’industria automobilistica, ferma da tempo e la cui produzione avrebbe segnato un calo disastroso, addirittura del – 58% in meno di un anno.
Se tale sia il livello di disperazione cui è giunto il governo al Cremlino non è ancora dato sapere. Intanto, però, i servizi segreti occidentali hanno offerto un disegno piuttosto chiaro di quanto accade nelle russie: hanno descritto l’esistenza di una sorta di «import parallelo», un sistema tortuoso e occulto per far entrare nel Paese prodotti e tecnologie soggette a sanzioni, ma di cui Mosca ha estremo bisogno, attraverso triangolazioni con Paesi compiacenti.
Nel carrello della spesa sarebbero finiti addirittura anche microchip di produzione americana per la propria industria militare. Di certo, se fosse vero, si tratta di materiali più affidabili dei prodotti della Corea del Nord, con cui Mosca è stata costretta a fare affari per l’approvvigionamento di armi indispensabili a continuare la guerra. Ciò detto, l’esportazione di armamenti del regime di Pyongyang verso la Russia, se dimostrata, non soltanto è una violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite che vietano al Paese di esportare o importare armi da altri Paesi. Ma soprattutto dimostrerebbe tutta la disperazione cui il regime di Vladimir Putin è giunto, pur di continuare a perseguire i suoi obiettivi geopolitici.