Putin spento e scialbo davanti alla grande parata del 9 maggio

Un discorso scialbo, deludente, con un attacco diretto alla Nato e null’altro. Non c’è niente di più nel giorno della vittoria sul nazifascismo, celebrato a Mosca come ogni anno il 9 maggio sulla Piazza Rossa di Mosca. Né dichiarazioni di guerra, né annunci roboanti che possano far comprendere la strategia dei prossime settimane. Vladimir Putin è stanco, ripete senza troppa enfasi il copione già visto da mesi a questa parte. La liturgia nazionalista russa pretende da parte del suo leader un linguaggio assertivo, aggressivo, orientato a magnificare i fasti della Russia che fu.

Ma stavolta c’è un ombra e un’incertezza in più a pesare nelle parole pronunciate dal pulpito a pochi passi dal mausoleo di Lenin: Putin è teso e con difficoltà gira le pagine del suo discorso. Anche perché in quelle parole c’è, tra le righe, una verità amara da digerire: «Stiamo ancora lottando per il nostro territorio, per la nostra sicurezza» ammette Vladimir Putin davanti a 11 mila soldati schierati sulla Piazza Rossa. Sono molte migliaia meno rispetto allo scorso anno, gli altri evidentemente sono impegnati al fronte. E tanti altri, invece, sono morti. «Ringrazio i medici e i soldati feriti» dice però sulla Piazza Rossa, richiamando al fatto che le cose in Ucraina non sono andate affatto come sperava.

Ma quella parola – Ucraina, appunto – nel suo discorso praticamente non c’è, anche se non è una grande novità. C’è invece la parola Donbass, ripetuta a oltranza, a riconfermare che il suo obiettivo è assicurare quantomeno quella regione alla Russia. Un’ossessione che non lascia spazio a trionfalismi. Poi basta. Sono pochi minuti, troppo pochi in verità per una ricorrenza simile, e il leader del Cremlino chiude sbrigativamente questo momento imbarazzante per lui. Si tiene le mani libere, dunque, senza anticipare le prossime mosse e senza concedere agli analisti occidentali spunti utili a decrittare la strategia del prossimo futuro delle forze armate russe.

Ma soprattutto è quello che non ha detto a essere sintomatico, particolarmente indicativo del fatto che il presidente non riesce a vendere ai suoi la guerra come una scelta grandiosa, né funziona la forzatura di associarla al passato – dalle guerre napoleoniche alla resistenza di Stalingrado – ragion per cui ogni guerra russa è giustificata perché trattasi di «difesa della patria».

L’unico accenno evidente è che la Russia di Putin non si sente minimamente occidentale e il leader rimarca la distanza a più riprese. «La Nato non vuole ascoltarci, avevano dei piani»; «Si stavano preparando a entrare in Russia»; «Kiev voleva acquisire armi atomiche. Hanno creato loro la minaccia»; «Gli Stati Uniti parlano della loro eccezionalità e vogliono gli altri Paesi satelliti». È tutto qui il Putin-pensiero. «C’è in atto una forma di russofobia e una volontà di ridicolizzare», ecco perché «era necessario prendere una decisione unica e inevitabile». Ovvero invadere o «dare un colpo preventivo» come dice Putin.

E infine l’appello diretto alle forze armate, nel tentativo di ricompattarle e scacciare i malumori che si registrano al loro interno: «Voi state lottando per la patria e per il futuro. Nel mondo non c’è posto per i nazisti».

Si chiude così, con una sfilata tutto sommato sobria e la sfilata di alcune armi ipertecnologiche che, tuttavia, non hanno affatto assicurato la vittoria a Mosca, anzi. Il clima di festa è funestato semmai dalla controffensiva ucraina a Kharkiv delle ultime ore, dai mancati progressi a Mariupol, che non può dirsi presa finché non cadrà l’ultimo avamposto ucraino dell’acciaieria Azovstal; e ancora, dalla resistenza che i russi incontrano un po’ in tutto il Donbass.

E allora ecco il senso delle poche parole masticate da Vladimir Putin e del volto tesissimo del ministro della difesa Shoigu: non è certo il caso di festeggiare, perché tutto è ancora in sospeso. Così come le trattative, ormai inesistenti a ogni livello, perché cancellate da una volontà da ambo le parti – Nato e Russia – di proseguire sino al prevalere di una parte sull’altra.

Putin poi scende dal palco e solo qui, in mezzo a medaglie e mostrine, sembra più rilassato e pare mostrarsi sicuro di sé. Ma dietro alla maschera del leader d’acciaio, volitivo e al tempo stesso riflessivo qual è sempre stato, a tratti appare l’uomo perplesso e infastidito che abbiamo già visto nelle ultime apparizioni pubbliche. Il presidente si morde spesso il labbro e, circondato dagli uomini della sicurezza, fa il vuoto intorno a sé e confabula unicamente con il suo «ministro della guerra», che gesticola visibilmente e sembra interessato a sottolineare qualcosa.

Non un sorriso tra loro: Vladimir Putin e Sergej Shoigu si avviano velocemente verso l’uscita, diretti nuovamente alle mura del Cremlino per deporre i fiori in omaggio ai caduti. Forse entrambi temono che quelle decine di metri che li vedono a distanza siderale dal popolo russo rappresentino un’uscita di scena anticipata e ingloriosa, che nessuno dei due avrebbe immaginato poco meno di tre mesi fa. Quando, con toni persino troppo bizzarri persino per la nomenklatura russa, il presidente ha trascinato il suo Paese forse nella prima guerra dopo l’Afghanistan che la Russia non può sperare di vincere.

Nei volti attoniti della leadership russa resta così solo la nostalgia di un passato glorioso che nessuno sembra credere possa davvero tornare. Neanche se il Donbass cadesse nelle loro mani. Cosa che, peraltro, non è ancor successa e che a questo punto potrebbe non succedere mai.

Deposti i fiori rossi, Putin resta infine solo con se stesso. Il mondo guarda con apprensione quelle immagini e si chiede cosa verrà dopo. Probabilmente è la stessa cosa che si chiede un grande leader d’inizio secolo che si è spinto troppo oltre le proprie possibilità e che, dopo due decenni al potere, appare logorato e danneggiato dal potere stesso. Un potere troppo grande per un uomo solo al comando.

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