Resistenze: la social serie che racconta i ragazzi di San Patrignano

Un racconto diretto, senza filtri, fatto da chi vive (o ha vissuto) la dipendenza e la disintossicazione. E da chi ha intrapreso un percorso di rinascita. Resistenze, racconti da San Patrignano è il titolo della social serie di Freeda, la digital media company con una community di oltre 9 milioni di persone (con un target al 92% femminile e al 72% sotto i 34 anni), che il 19 aprile ha lanciato sui suoi profili YouTube e Facebook questo nuovo progetto in cinque puntate. Un racconto ambizioso che ha richiesto quattro mesi di intenso lavoro, una fotografia inedita di San Patrignano dalla quale emerge ancora una volta come nella nostra società «le dipendenze siano un problema trasversale, che non guarda al ceto sociale, all’orientamento sessuale o all’età delle persone interessate», come osserva il presidente della comunità Alessandro Rodino Dal Pozzo. «Il nostro obiettivo? Rimanere aderenti alla realtà, proponendo in modo disintermediato storie di vita vissuta. Per questo motivo, sono le ragazze e i ragazzi ospiti della Comunità di San Patrignano a raccontarsi in prima persona», spiega in questa intervista a Panorama.it Sara Ristori, Direttrice Editoriale di Freeda.

Sara, com’è nata la serie Resistenze, racconti da San Patrignano?

«In maniera naturale, organica alle iniziative di Freeda legate alle realtà che collaborano e supportano il mondo giovanile. L’obiettivo, il fil rouge è sempre quello di raccontare storie che siano da una parte inspiring, dall’altra “normalizzanti” su tematiche divisive e spinose. La dipendenza dalle droghe ancora oggi lo è».

In Resistenze non c’è, come invece accade in molti documentari, una tesi di base da avvalorare o rafforzare, piuttosto il desiderio di raccontare delle storie.

«Il nostro obiettivo, in tutti i progetti, non è mai quello di puntare il dito o trovare un capro espiatorio. Piuttosto vogliamo accendere un dibattito, non far sentire solo nessuno: normalizzare la discussione, quasi sempre significa levare lo stigma sociale legato a preconcetti e cliché».

Per questo avete scelto un linguaggio diretto, con i sei protagonisti che si raccontano senza filtri e intermediazioni?

«Sì, perché questa era un’occasione d’oro: volevamo che a parlare fossero ragazze e ragazzi ospiti della più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa, attorno ai quali troppo spesso c’è uno stigma che avvolge tutto. Ascoltare il racconto diretto di chi ha imboccato un percorso di rinascita, è il modo migliore per scardinare i tabù sulla tossicodipendenza. Ed è anche un modo per supportare chi ha ancora paura a farsi aiutare».

Lei oltre che Direttrice Editoriale di Freeda è una regista: è stato difficile ottenere questo risultato?

«Molto. L’equilibrio da mantenere è tra il non empatizzare troppo e il non risultare troppo distanti, perché lo sguardo asettico non serve. L’importante è riuscire a rendere l’emotività di chi si racconta. Per questo si deve ragionare su tutto, dalla scelta dei microfoni a quello delle inquadrature».

Quando ha finito di guardare le cinque puntate, che cosa ha pensato?

«Sono arrivata da pochi mesi in Freeda e il progetto era già avviato ma mi sono subito sporcata le mani e visto che sono una regista ho cercato di dare alcune indicazioni e di cambiare alcune cose. Dal punto di vista tecnico formale, ho pensato che la squadra avesse fatto un prodotto orientato e molto curato: ho apprezzato la giusta distanza che eravamo riusciti ad ottenere, lo sguardo complessivo sulle storie. Come spettatrice ho trovato forte il lato emotivo, lo spunto di riflessione che genera questa serie e la normalizzazione di un tema centrale nella nostra società, quello delle dipendenze».

Il momento più intenso vissuto durante la lavorazione?

«Ce ne sono stati diversi perché alla fine la squadra che ha lavorato alla serie – tutta interna a Freeda – ha stretto rapporti con i ragazzi, ci siamo affezionati a loro e alle loro storie. In un caso abbiamo anche rivisto i piani di produzione e allungato le riprese per essere presenti il giorno in cui uno dei sei protagonisti ha terminato il suo percorso e ha lasciato la comunità».

E la reazione di Natalie, Michele, Nadia, Sofia, Alessandra e Luciano qual è stata?

«Gli abbiamo mostrato solo alcuni pezzi di girato perché erano curiosi soprattutto di vedere il risultato delle inquadrature. Per il resto, aspettiamo le loro reazioni quando avranno visto la serie. Ogni puntata vive a se, non c’è un ordine cronologico o una trama da seguire»

Il presidente della comunità, Alessandro Rodino Dal Pozzo, invece l’ha vista?


«Sì, e lo ha apprezzato. Ha notato che ogni storia e ogni intervista mette in evidenza come la dipendenza spesso sia solo l’apice di un malessere che nasconde disagi diversi».

Lei ora su quali progetti futuri sta lavorando?

«Gli spunti di riflessione sono molteplici. Freeda si pone sempre di più come un “intrattenitore on line”: l’obiettivo resta quello di trattare con leggerezza ma sempre con estrema credibilità le tematiche che interessano alla nostra comunità».

Ad esempio?

«La salute mentale, le dipendenze affettive, l’accettazione di sé, la diversità. Vogliamo essere un partner quotidiano delle persone che ci seguono: non vogliamo solo intrattenere in maniera leggera ma anche creare spunti di riflessione e di dibattito».

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