Rifkin’s Festival, l’autoanalisi senile di Woody Allen | Recensione

Rifkin's Festival

C’è una scena de Il settimo sigillo in cui Antonius Block, il cavaliere che sfida a scacchi la Morte, si rammarica del silenzio di Dio. “Lo chiamo e lo invoco, e se Egli non risponde io penso che non esiste” dice Block. La Morte replica che forse le cose stanno proprio così, il divino non esiste, ma il cavaliere non può accettarlo: “Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine” dice ancora. “Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla senza speranza.”

Il film di Ingmar Bergman è uno dei capolavori citati da Woody Allen in Rifkin’s Festival, forse la più spietata autoanalisi della sua senilità che il regista newyorkese abbia mai fatto. Gli ultimi lavori di Allen oscillano tra opere marginali (Café Society) e film più complessi (La ruota delle meraviglie), ma mai come in questo caso si ha l’impressione di sbirciare direttamente nella sua disillusione matura, sul versante opposto rispetto alla gioventù scanzonata di Un giorno di pioggia a New York. Il protagonista di Rifkin’s Festival – affidato alla grande esperienza di Wallace Shawn – è quindi l’ennesimo “doppio” di Allen, con le sue idiosincrasie e il suo stesso immaginario: Mort Rifkin è infatti un ex professore di cinema che si reca al San Sebastian Film Festival con la moglie Sue (Gina Gershon), ufficio stampa dell’acclamato regista francese Philippe (Louis Garrel). Mentre l’infatuazione di Sue per quest’ultimo diventa sempre più chiara, Mort s’innamora di una dottoressa locale (Elena Anaya) e medita sulla sua vita attraverso i film del passato.

L’aspetto peculiare di Rifkin’s Festival è proprio la rievocazione di alcuni grandi classici (Quarto potere, 8 1/2, Fino all’ultimo respiro, Jules e Jim, Persona, L’angelo sterminatore…) nei sogni e nelle fantasie di Mort, legato al cinema di quei maestri che lo stesso Woody Allen ha citato spesso nella sua filmografia. La venerazione del passato accomuna Mort ad altri personaggi alleniani recenti, come i protagonisti di Midnight in Paris e Un giorno di pioggia a New York, ma qui la focalizzazione è proprio sulla Settima Arte: Allen gioca con i suoi numi tutelari per riflettere sui rapporti sentimentali e sui massimi sistemi, contrapposti alle piccole (secondo Mort) questioni socio-politiche di cui si occupa Philippe. Giunto all’età di 85 anni, Allen non è più interessato al presente, e forse non lo è mai stato; al contrario, preferisce concentrarsi su quel trascendente che ha sempre messo in dubbio, e che l’avvicinarsi della fine – speriamo il più tardi possibile – non ha certo reso più probabile ai suoi occhi.

In fondo, le riflessioni di Mort non sono molto diverse da quelle di Antonius Block, solo più ironiche e disincantate. Il cinema immortale di Fellini, Truffaut, Buñuel e altri grandi lo aiuta a rielaborare ciò che accade nella sua vita, in segmenti paradossali dove la calda fotografia di Vittorio Storaro si irrigidisce nel bianco e nero. Il montaggio e la costruzione delle inquadrature si adeguano al gioco, riproducendo i classici con grande fedeltà: la differenza è che Mort, Sue e gli altri personaggi prendono il posto degli attori originali, dando luogo a una parodia garbata e precisa. Purtroppo l’espediente diventa ben presto ripetitivo, anche per l’eccessiva meccanicità di una sceneggiatura che, dopo il primo segmento, rende prevedibili le parodie successive. A connetterle c’è il solito quadrilatero amoroso che Allen ha già imbastito negli ultimi anni, ma con una malinconia che rimanda ai suoi vecchi capolavori. C’è ben poca autoindulgenza in Rifkin’s Festival: attraverso le parole di Sue e Philippe, Allen critica l’atteggiamento di Mort per deridere sé stesso, con le sue insofferenze e la sua chiusura verso il cinema contemporaneo.

Allo stesso tempo, però, si sorride per le frecciatine di questo protagonista che è anche un raisonneur, più consapevole della realtà e delle sue amarezze rispetto agli altri. Non sarà mai uno dei vertici nella carriera di Allen, eppure Rifkin’s Festival riesce quantomeno a emergere dall’anonimato di certi suoi film recenti. È una finestra spalancata sulla mente del regista, e infatti la narrazione è incorniciata da una seduta psicanalitica. La risposta del terapeuta ci viene risparmiata, poiché non è rilevante: da che mondo è mondo, ciò che importa è quello che il paziente racconta, e come lo racconta. Anche per uno convinto che la psicanalisi sia “un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”.

Leggi su ScreenWEEK.it