Shiva Baby dà voce alla generazione del disagio

La poetica del disagio non è mai stata tanto popolare come negli anni Duemila. Inaugurata dai Millennial e sublimata dalla Generazione Z, questa tendenza esorcizza le ansie sociali attraverso la loro celebrazione nella cultura pop e sui social network, permettendo di raggiungere una sorta di catarsi collettiva grazie alla condivisione del problema: in altre parole, ci si riconosce nelle ansie degli altri, si empatizza con i loro racconti, e si prova un relativo sollievo nella coscienza di non essere soli. La poetica del disagio nasce dall’erosione delle antiche certezze socio-economiche, dalla precarietà lavorativa, dalla progressiva eliminazione degli ammortizzatori sociali e dalla maggiore difficoltà – come ovvia conseguenza – di emanciparsi dal nucleo familiare. L’insicurezza che ne deriva si accompagna a una grande svalutazione del sé, soprattutto di fronte alle sfide del lavoro, dei rapporti romantici e di quelli amicali; al contempo, però, innesca un livello altissimo di consapevolezza, che si esprime nell'(auto)ironia stralunata e paradossale dei meme.

Ebbene, Shiva Baby dà voce a tutto questo con una lucidità che vediamo raramente nel cinema nordamericano. Ovviamente non è la prima volta che l’industria culturale effettua un’operazione del genere: le produzioni britanniche, ad esempio, lavorano da anni sui meccanismi dell’incomprensione e dell’imbarazzo, come dimostra l’originale The Office (dove l’insicurezza era esclusivamente sociale, non causata da instabilità economica o lavorativa). Nel film di Emma Seligman, però, il discorso raggiunge un livello tutto nuovo di acutezza generazionale, intersecandosi con una riflessione sui generi e sulla sessualità femminile.

Come nell’omonimo cortometraggio, anche qui la protagonista è Rachel Sennott nel ruolo di Danielle, studentessa universitaria che fa parte di una comunità ebrea molto vasta e unita, nei pressi di New York. Danielle è iscritta a un’app per sugar baby che le permette di entrare in contatto con uomini più grandi e intraprendere relazioni economicamente vantaggiose. Quando si reca allo shiva per una parente defunta (ovvero il periodo di lutto nell’ebraismo, con ricevimento e buffet dopo il funerale), trova Max, il suo sugar daddy, che aveva appena salutato dopo un incontro sessuale. È un trentenne di bell’aspetto, con moglie e figlia piccola, di cui però Danielle non era a conoscenza. Chiaramente invaghita di lui, poco esperta come sex worker, la ragazza vive il contrasto fra vita sessuale e vita familiare: ciò che ne deriva è una girandola di bugie, equivoci e situazioni imbarazzanti, fra il tentativo di mantenere segreta la sua relazione con Max e quello di attirarne l’attenzione per non perderlo.

Se il corto racchiudeva in nuce il soggetto originale, i 77 minuti di Shiva Baby (perfetti nella loro compattezza) permettono a Seligman di sviluppare l’idea in tutto il suo potenziale, ramificandone gli effetti culturali, sentimentali, caratteriali e persino cinematografici. L’unità di luogo – prologo escluso – imprigiona Danielle in uno spazio claustrofobico e sovraffollato, dove la sua frustrazione esplode in una sequela di scene tipicamente cringe. È proprio questo concetto, come sottolinea già Cristina Resa su IGN, a determinare il rapporto tra il film e noi spettatori: proviamo imbarazzo per interposta persona, senza essere coinvolti direttamente nella situazione. E ne ridiamo, ovviamente. Una risata nervosa, infastidita, come i sorrisini di Danielle mentre viene pressata dalle domande o dai commenti dei suoi familiari. Ridiamo perché molte scene sono oggettivamente spassose, i dialoghi della regista canadese corrono serrati e surreali, ma ridiamo anche per sfogare l’imbarazzo ed esorcizzare il disagio. Le aspettative dei parenti, la difficoltà nel spiegare la propria materia di studio (tipica della Generazione Z), lo smarrimento di fronte a un futuro incerto, l’impossibilità di scappare perché c’è sempre un ostacolo, una zia che ti chiede come stai, l’ospite che ha bisogno del tuo aiuto, l’amante che ti scruta da lontano, il pianto lancinante della sua bambina, una persona che ti urta, mobili pieni di vettovaglie o ammennicoli vari: insomma, una trappola da cui non c’è uscita, e che genera ansia.

All’esordio, Emma Seligman trova già un linguaggio impeccabile per rendere queste sensazioni, usando le inquadrature strettissime sul volto di Danielle e il montaggio concitato per trasmettere uno stato di crescente insofferenza. L’andamento è febbricitante, note di violino colpiscono come rasoiate, mentre una tensione da film horror stritola tanto la protagonista quanto il pubblico. E in ogni istante riemerge quel desiderio di fuggire per tornare a respirare, subito frustrato da un nuovo impedimento. È significativo che anche i dialoghi suonino come una trappola: l’incomunicabilità fra generazioni non lascia scampo, e quando Danielle parla con la madre, il padre o altri familiari, è come se la comunicazione si svolgesse sempre su livelli sfasati. Parlano di cose diverse, e nemmeno se ne rendono conto (soprattutto gli adulti). Al contempo, però, Seligman usa i dialoghi per evocare il passato dei personaggi, senza mai scadere nel didascalico. I botta e risposta, lungi dall’essere informativi, suonano molto naturali, come dimostrano le schermaglie tra Danielle e Maya, la sua ex ragazza. I dettagli sulla loro storia trapelano più dalle reazioni delle due giovani, più che dalle parole in sé. Forse suonerà banale, ma l’incredibile performance di Rachel Sennott è ancora più straordinaria nei silenzi, negli sguardi, nei turbamenti che si coagulano sul suo viso durante lo shiva.

Tanto disagio, però, non è solo un carburante per le scene cringe. L’infelicità di Danielle nasce infatti dalle dinamiche di potere in seno alla coppia, a maggior ragione in una relazione clandestina basata sul sesso. Non sempre le giovani donne diventano sugar baby per un effettivo bisogno di denaro (anche se, negli Stati Uniti, i salati debiti universitari aggravano le condizioni economiche di molte studentesse); a volte si tratta semplicemente di sperimentare, di “farsi un giro dalle parti del sesso senza sentimenti, di vivere delle esperienze senza dover fingere che lo si fa per puro piacere né aspettarsi dei benefici sociali collaterali”, come scrive Virginie Despentes in King Kong Theory. Ma è anche, per l’appunto, una questione di potere: assumere “una posizione di ultrafemminilità” per trarne “un utile netto” (sempre Despentes). Se è vero che sessualità e seduzione sono gli unici poteri che per secoli sono stati concessi alle donne, Danielle ne sperimenta gli effetti sull’uomo che le piace, sentendosi vieppiù tradita quando gli equilibri si spostano: nella posizione di cliente, Max aveva bisogno di lei per ciò che Danielle gli offriva, ovvero il suo corpo e le sue prestazioni; ma nella posizione di amante, già impegnato con moglie e figlia, e lei a doverlo inseguire. La protagonista viene quindi privata del potere sessuale, l’unico che poteva esercitare, perché Max fa appello a un altro tipo di potere (quello sociale: è più grande di lei, sposato, rispettato, con un lavoro) per respingerla e riconquistare una posizione di dominio.

Naturalmente c’è un equivoco, nel senso che Danielle vede Max e la moglie come individui pienamente realizzati, ma la loro situazione non è affatto stabile come sembra (sono pur sempre Millennial, precarietà e insicurezza fanno parte del loro vissuto). Il ritorno all’adolescenza sembra però l’unica soluzione praticabile, e il bel finale suggerisce proprio questo. In tal senso, Shiva Baby costruisce un rapporto verosimile tra Danielle e Maya, proiettando uno sguardo fresco, non stereotipato, anche sulla percezione della bisessualità (sia negli adulti, che non l’accettano come “norma” ma non ne sono scandalizzati, sia nella caratterizzazione dei personaggi, che la vivono con naturalezza). La consapevolezza disillusa del corpo è un tratto peculiare dei nostri tempi.

Emma Seligman ha avuto il coraggio di esordire con una storia di “anti-formazione”, capace di abbracciare le fratture e i balbettii di una generazione che si fa largo tra le macerie di quelle precedenti. Come negli studi di Danielle, “il femminismo non è una carriera, ma un filtro”, e la cineasta canadese dimostra di averlo interiorizzato nel suo sguardo sul mondo. Shiva Baby è una commedia degli equivoci, un horror dei rapporti sociali, un teen drama, un manifesto generazionale: tante anime che convivono armoniosamente, senza mai escludersi a vicenda.

Leggi su ScreenWEEK.it