Shy, incubi e visioni di un adolescente

(di Marzia Apice) MAX PORTER, SHY (SELLERIO, PP.152, 16
EURO. TRADUZIONE DI FEDERICA ACETO). Uno zaino sulle spalle
pieno di pietre da lanciare, il cammino faticoso di notte nella
campagna inglese, e la mente affollata – di voci, incubi e
ricordi – di un adolescente in crisi. Siamo in Inghilterra, nel
1995, e Shy non ha idea di cosa gli riserverà il futuro: per ora
vuole solo scappare dall’istituto per ragazzi in difficoltà che
lo ha accolto nel tentativo estremo di lenire le sue angosce e
prepararlo alla vita in società.
    Inizia così “Shy”, il romanzo di Max Porter, che arriva in
Italia edito da Sellerio con la traduzione di Federica Aceto, e
che ha ispirato Steve, un film Netflix diretto dal belga Tim
Mielants, con protagonista (e coproduttore) Cillian Murphy, la
star irlandese di Peaky Blinders e Oppenheimer. Un libro che
sembra inserirsi in un filone tematico, il racconto delle
inquietudini adolescenziali, su cui c’è grande attenzione per il
successo della miniserie tv inglese Adolescence.
    Sperimentando la fusione di prosa e poesia, il romanzo Shy,
breve e intensissimo, scatena in chi legge al tempo stesso
inquietudini e speranza. Il ritratto del protagonista commuove
ed emoziona: Shy è due entità divise, un ragazzino chiaramente
dilaniato dal disturbo mentale, ma anche un individuo già
pericoloso per sé e per gli altri, preda di eccessi di violenza
e cadute vertiginose nella depressione. Porter trascina il
lettore in una continua alternanza di poesia, tragedia e squarci
di inattesa luce, soprattutto grazie alla bellezza della natura,
forse l’unica cosa – assieme alla musica elettronica ascoltata
rigorosamente in cuffia – che riesce a dare sollievo e fiducia
al giovane protagonista. Anche i piani temporali e spaziali si
mescolano in modo incessante, così come le voci che rimbombano
nella mente di Shy e che non gli danno un attimo di tregua. Il
ragazzo nella sua giovane vita ha collezionato solo fallimenti:
con la madre e il patrigno, con le ragazze, con i suoi coetanei
e con gli altri giovani smarriti – “ragazzi cattivi, avanzi di
riformatorio, topi da laboratorio”, scrive Porter con una
durezza impietosa – che ha incontrato nell’istituto Ultima
Chance, quel luogo pensato per chi si sente inadeguato alla
vita. Come in flusso di coscienza che inchioda il lettore alla
pagina, il libro è un fluire di sensi di colpa, recriminazioni,
scatti di violenza ma anche insperabili momenti di grazia, di
ristoro, di conforto. Gli spettri del passato, le distorsioni
della realtà, i rimproveri degli psicologi, il male di vivere
non abbandonano mai Shy: lui barcolla, si fa male e fa male,
eppure ha un’insopprimibile fame di vita che lo spinge comunque,
pur nella sofferenza, ad andare avanti. Porter sembra
osservarlo, con curiosità, lucidità e disarmante tenerezza, e
nel romanzo lo consegna al lettore, esibendolo senza filtri
nella sua “imperfezione”, così dolorosa e poetica. Il risultato
è un romanzo incisivo, capace di sperimentare nelle invenzioni
linguistiche e di scattare fotografie iperrealistiche di ciò che
può accadere quando fragilità, caos e sofferenza sono zavorre
troppo pesanti contro cui lottare mentre si cerca il proprio
posto nel mondo, mentre quello che si vuole è solo trovare un
istante di pace.
   

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