«Sono sopravvissuta alla violenza di mio marito cambiando nome, città, lavoro, vita…»

«Volevo morire e stavo per uccidermi, non potevo più sopportare di essere picchiata avevo deciso di farla finita, ma poi mi è stato spiegato che poteva farcela se avessi voluto» inizia così il racconto di una ragazza di 23 anni (che per ovvie ragioni teniamo anonima), vittima di violenza scampata due volte alla morte. Una per mano del suo compagno e l’altra perché aveva deciso di suicidarsi non trovando altra vita d’uscita ai soprusi. Il suo caso è purtroppo solo uno tra i migliaia di casi di violenza subita dalle donne, una piaga in forte crescita nel 2021.

Nell’ultimo report del Viminale infatti le donne uccise negli ultimi undici mesi del 2021 sono 103 e rappresentano il 40 per cento degli omicidi in Italia e i casi di violenza sono aumentati considerevolmente. Donne che spesso hanno timore di denunciare e sono uccise con i loro figli come è accaduto il 17 novembre a Elisa Mulas, uccisa dall’ex compagno Nabil Dhahri con un arma da taglio insiemealla madre Simonetta Fontana e i due figli Ismaele e Sami, 2 e 5 anni a Sassuolo. Poi ci sono donne che hanno trovato il coraggio di andare dalle forze dell’ordine per denunciare gli abusi subiti ma comunque non sono riuscite a sfuggire alla furia omicida dei loro assassini come Juana Cecilia Hazana Loayza. Una giovane donna sgozzata il 20 novembre in un parco cittadino a Reggio Emilia, dall’ex compagno, Mirko Genco che era già stato denunciato da un ex compagna e non accettava la fine della relazione.

In questo contesto fortunatamente ci sono anche migliaia di donne di cui si parla poco e che riescono con l’aiuto ed il sostegno dei centri anti violenza e delle case rifugio ad uscire dal ciclo della violenza e a ricostruire la loro vita lontano da chi certamente avrebbe potuto ucciderle.

Alice e Jenny (nomi di fantasia) sono tra queste e abbiamo scelto di raccontare le loro storie di donna che coraggio hanno ricostruito la loro vita.
«Noi non abbiamo salvato Alice é lei che ha scelto di salvarsi perché ci sono donne che se vogliono possono trovare delle opportunità per cambiare la loro vita», ci racconta Anna Verdelocco della casa rifugio Maree nella regione Lazio gestita dalla cooperativa BeFree che in questi due anni ha preso in carico circa 800 donne vittime di violenza.

«Lui nutriva nei suoi confronti una gelosia morbosa e per lei il suo attaccamento all’inizio della storia era qualcosa di profondo e importante che la faceva sentire amata. Un’illusione durata poco perché purtroppo la gelosia in breve tempo si è trasformata in una violenza inaudita. Lei non ha capito da subito che quell’esagerazione del controllo era per non lasciarle vivere la sua vita».

Che tipo di abusi ha subito?

«Alice è rimasta incinta del suo compagno ed è stata picchiata durante tutta la gravidanza, lui ogni volta le chiedeva scusa, sì giustificava dicendole di avere problemi e di non riuscire a controllare l’ira perché ha avuto una famiglia problematica. Erano solo gli inizi e Alice lo ha perdonato, è tornata a casa ed il bambino è nato. Dopo dopo circa un mese lui l’ha picchiata di nuovo senza motivo, (non esiste mai un motivo per essere picchiati) le ha vietato di andare a lavorare isolandola dal suo mondo, dalle sue amicizie e dai suoi genitori. Le diceva più volte: «Perché noi bastiamo a noi stessi quando ti vedi con loro litighiamo sempre».

Nel frattempo resta di nuovo incinta di una bambina. Alice però comincia ad avere paura del suo compagno e per fortuna impedisce il riconoscimento della figlia e torna dalla sua famiglia. Lui sparisce per poi riapparire e minacciare anche i genitori. Alice per proteggerli torna a casa e da quel momento la violenza ha un escalation velocissima, fino a che un giorno la aggredisce così gravemente da mandarla in ospedale. Premesso che molte donne vittime di violenza non vanno in ospedale per evitare di denunciare, quando lo fanno è perché l’aggressione è stata veramente grave.

Dall’ospedale interviene la polizia che contatta la nostra casa rifugio. Da quel momento lei accetta di allontanarsi dal suo compagno con i figli e viene ospitata nella nostra casa rifugio dove riprende in mano la sua vita grazie a degli aiuti economici della regione Lazio, che sono un contributo di libertà studiato proprio per le donne. Alice inizia la sua nuova vita con un corso di formazione regionale e si specializza nell’ambito che le piace, apre un’attività e trova una casa lontano dalla sua residenza. È stato un percorso lungo e difficile anche per via dei figli. Il giudice aveva disposto infatti di far incontrare il bambino al padre con degli incontri protetti ma anche in quell’occasione l’uomo ha creato disagio sia alla struttura che al bambino così sono stati sospesi. Lei oggi sta bene siamo sempre in contatto seguiamo il suo procedimento penale che è ancora all’inizio e quindi verremo ascoltate anche noi in tribunale. Lui ha cercato di venirla a riprendere con una motosega.

Cosa può dire a chi non vuole distaccarsi dal luogo in cui vive, dai suoi affetti per colpa di un ex compagno?

«Il distacco dalla famiglia e dagli amici è solo iniziale perché la situazione è pericolosa e l’abusante potrebbe trovarla. Da subito per la propria tutela personale si deve restare nella casa rifugio senza vedere nessuno, lasciare il posto di lavoro e far cambiare la scuola ai bambini. Passato del tempo i contatti con amici e famigliari riprendono ma il distacco è l’unico modo per sfuggire a queste persone».

La seconda storia invece è quella di Jenny. A raccontarcela è un funzionario della polizia locale di Roma.

«Erano le circa le due di notte quando abbiamo visto una giovane ragazza cercare di togliersi la vita gettandosi da una montagnola di circa 3 metri. Siamo subito intervenuti per fermarla lei ha cominciato a picchiarci e riempirci di insulti : «non potete aiutarmi nessuno può farlo, siete dei bugiardi non voglio più vivere»; aveva 23 anni e non voleva essere aiutata perché nessuno ha mai fatto niente per lei, era diffidente tirava calci e sabbia».

Come siete riusciti a convincerla?

«Non è stato facile spiegarle che poteva salvarsi se avesse voluto. Appena si è calmata l’abbiamo portata in un centro anti-violenza di Roma. Arrivata nel posto è stata accolta con molta dolcezza e poco dopo ha iniziato a capire che qualcosa poteva cambiare. È stato un percorso lungo e dopo tanto tempo ha iniziato a fidarsi.È stata dei mesi al centro e poi ha fatto un corso regionale grazie al quale è diventata una parrucchiera. Oggi vive e lavora in un’altra regione».

L’analisi di Diana Russo sostituito procuratore della Repubblica che per anni si è occupata di Codice Rosso e violenza contro le donne.

La falla nel sistema italiano riguarda la messa in sicurezza della donna, perché anche se che ci sono misure cautelari che funzionano resta il vuoto temporale che intercorre da quando una donna va a denunciare a quando arrivano i provvedimenti. In quell’arco di tempo se la donna non ha un’alternativa personale o non accetta di essere collocata in un centro antiviolenza torna casa ed è li che viene uccisa. Ad aggiungersi a questo c’è un problema di natura economica perché spesso le donne che denunciano dipendono oltre che psicologicamente anche economicamente dall’abusante. Come possono spostarsi geograficamente senza un sostegno economico? questo infatti è uno dei fattori che può scoraggiare dal denunciare insieme alle dinamiche psicologiche del ciclo della violenza. Il femminicidio è l’apice di una violenza perpetrata in un certo periodo di tempo in una dinamica relazionale o famigliare. Occorrono sostegni economici e opportunità di lavoro per ricostruire una vita nei progetti che ci sono non fanno parte di una legge nazionale ma sono comunali o regionali.

​Violenza sessuale contro le donne: prevenzione, informazione e tutela nei presidi sanitari

L’abuso fisico e sessuale è un problema sanitario che colpisce oltre il 35% delle donne in tutto il mondo; cosa ben più grave, è che ad infliggere la violenza sia nel 30% dei casi un partner intimo. Sono i dati diffusi dall’OMS in occasione del 25 Novembre giornata Mondiale della lotta alla violenza contro le donne.In Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner o ex partner.

La violenza contro le donne rappresenta un importante problema di sanità pubblica, oltre che una violazione dei diritti umaniLa violenza ha effetti negativi a breve e a lungo termine, sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva delle vittime. Le conseguenze possono determinare per le donne isolamento, incapacità di lavorare, limitata capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. I bambini che assistono alla violenza all’interno dei nuclei familiari possono soffrire di disturbi emotivi e del comportamento. Gli effetti della violenza di genere si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità. La battaglia contro gli abusi gioca un ruolo di primo piano in ambito sanitario, crescono progetti e iniziative che rinforzano la capacità dei presidi di pronto soccorso e dei contesti clinici di intercettare e gestire con tempestività i casi di violenza e trasformarli in denuncia.I segnali “sospetti” da approfondireTutti i casi di sospetta violenza sessuale, devono favorire le richieste di aiuto a tutela delle vittime, stimolando la denuncia. Ma quali sono i segnali a cui un professionista, ginecologo, ostetrico o infermiere deve prestare attenzione?

«Tutti i segnali di traumatismo a livello vulvare esterno – spiega la dottoressa Elisabetta Colonese specialista in ginecologia ed ostetricia e consulente presso il portale Mustela per i professionisti Formazioneinfanzia.it – come ecchimosi, sanguinamenti anomali, tagli, lesioni sospette o segni anche sul corpo che possono far pensare a percosse o maltrattamenti, richiedono sempre un approfondimento e indagini mirate da parte dello specialista che procede anche con accertamenti interni con speculum ed ecografia transvaginale».

L’importanza della contraccezione d’emergenza

Fondamentale, in caso di avvenuta violenza sessuale, procedere con una contraccezione di emergenza, una terapia contraccettiva dopo la violenza per evitare gravidanze indesiderate, che insorgerebbero in un clima emotivo e psicologico molto delicato e complesso.

Quali esami virologici fare?

«Dopo un abuso – prosegue la specialista – sono molto importanti tutti gli esami virologici per escludere che la vittima possa aver contratto Epatiti B o C come anche Hiv, VDRL e TPHA, gonorrea, insomma tutte la malattie a trasmissione sessuale. È bene eseguire anche i tamponi vagino- cervicali, per escludere la presenza di agenti patogeni (miceti o batteri) che partendo dal livello vaginale o cervicale potrebbero provocare vaginiti anche molto pericolose, sia nell’imminente che nel futuro, alcuni di questi patogeni intaccando persino la pervietà tubarica o provocando gravi infezioni pelviche e compromettendo potenzialmente la fertilità futura. Gli esami del sangue virologici vanno sempre ripetuti a 6 mesi per il “periodo finestra” in cui possono positivizzarsi a distanza».

I percorsi di accoglienza devono essere adeguati e l’intervento tempestivo…

«E’ di fondamentale importanza – ribadisce la dottoressa Colonese – poter contare su sistemi sanitari dotati di personale formato, affinché un evento del genere sia intercettato tempestivamente e gestito al meglio, per favorire la denuncia, prevenire patologie, per fornire sostegno psicologico alle vittime ed evitare gravidanze indesiderate. Una particolare attenzione va riservata alle pazienti di giovane età, affinché nulla venga sottovalutato sul piano della prevenzione, dell’informazione e della tutela delle donne a 360 gradi».

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