martedì, 26 Novembre 2024
Splendido quarantenne: 1997 – Fuga da New York
1997: Fuga da New York non è il mio film di John Carpenter preferito; per me La cosa gli è superiore e incarna alla perfezione la paranoia del decennio appena trascorso, gli anni ’70. So benissimo che iniziare così un articolo sui quarant’anni del film, uscito in USA il 10 luglio 1981, non è ideale. Ma lo dovevo confessare subito per arrivare a quanto segue: Fuga da New York magari non sarà il vostro film preferito di Carpenter, ma converrete con me che è il suo film più rappresentativo.
È il film che più di ogni altro prima di esso distilla quel mix di fantascienza e azione, quel nichilismo e quell’amore per l’estetica e la narrativa dei B-movie (e del pulp) che Carpenter avrebbe poi perfezionato per tutto il decennio successivo. Prima di Fuga da New York, quegli elementi erano già presenti nei film di Carpenter, ma mai tutti insieme. È anche il film che, quando citate la famosa frase di Carpenter “Tutti i miei film sono western” per bullarvi con gli amici, viene per primo in mente come esempio perfetto.
Qualche settimana fa abbiamo celebrato il quarantesimo anniversario di un film altrettanto importante e influente nel decennio ’80, I predatori dell’arca perduta, notando come fosse già post-moderno. Ben prima di Quentin Tarantino, Steven Spielberg e George Lucas avevano realizzato un gigantesco e costoso omaggio ai serial cinematografici e ai film di avventure con cui erano cresciuti. Fuga da New York fa la stessa cosa, anche se meno con l’idea di creare un giocattolone e più con l’ottica di chi vuole allo stesso tempo inserirsi in una tradizione tutta americana – quella degli eroi macho western – e ribaltarla per fare satira politica di alto livello sull’America stessa.
Carpenter concepì Fuga da New York a metà anni ’70, subito dopo lo scandalo Watergate, ma dovette aspettare il successo di Halloween prima che qualcuno si convincesse a dargli dei soldi per realizzarlo. Il regista ha detto di essere anche stato ispirato dalla visione de Il giustiziere della notte. Pur non andando d’accordo con la filosofia del film, aveva apprezzato “l’idea di New York come una giungla, e volevo realizzare un film di fantascienza su quella falsariga”. Carpenter chiamò in suo aiuto Nick Castle, attore che aveva prestato la sua imponente fisicità al ruolo di Michael Myers in Halloween (e futuro regista di Giochi stellari). Fu Castle a ideare il personaggio di Cabbie (Ernest Borgnine) e soprattutto a suggerire a Carpenter l’iconico e nichilista finale.
Fuga da New York è senza dubbio un film politico. Carpenter non ha mai nascosto la sua sfiducia nei confronti di “The Man”, il governo, ma qui è per la prima volta centrale in un suo film. Non è un caso che la figura del Presidente (il fidato Donald Pleasence) sia di gran lunga la più deprecabile in un film popolato di reietti, anti-eroi e criminali violenti (tra cui due personaggi che si chiamano Romero e Cronenberg, tanto per non farsi mancare le strizzate d’occhio al cinema anti-establishment). Il Presidente è un individuo viscido e opportunista, e Carpenter, nel raccontare la sua liberazione da parte di Jena/Snake Plissken, prende decisamente la parte dei criminali. La morte del Duca (Isaac Hayes) è in questo senso esemplare: il Duca (nero) viene ucciso in maniera meschina dal Presidente (bianco), che si trova in una posizione vantaggiosa e lo abbatte da distanza, in sicurezza. Mentre il corpo senza vita del Duca è ripreso frontalmente, una morte da vero eroe alla ricerca della libertà, il Presidente è mostrato dietro a una ringhiera che assomiglia moltissimo alle sbarre di una prigione. Siamo noi, quelli dall’altra parte della barricata, i prigionieri. Prigionieri delle nostre abitudini e comodità, prigionieri di una società che ci culla e in realtà ci controlla.
Al centro di tutto questo c’è un eroe, Snake Plissken, che eroe davvero non è. Diremmo anti-eroe, non fosse che fino all’ultimo fa quello che fa solamente perché è minacciato di morte. E, mentre esegue la sua missione, è sempre più evidente come coloro che lo hanno spedito a New York lo disgustino, e come invece si senta più vicino ai reietti che popolano l’isola-prigione di Manhattan. Al punto che, vedendo il film, ci si rende conto di una cosa stranissima: il Duca non è poi così malvagio come credevamo. Le sue azioni hanno un solo scopo, che è quello di liberare tutti i detenuti. Tutti. Non ha creato un piano per fuggire dall’isola, ma per andarsene insieme a tutti i suoi compagni. Alla fine, Snake decide che semplicemente la specie umana non merita una seconda chance, se a rappresentarla c’è un leader che non ha esitato a sacrificare diverse vite pur di salvare la propria.
Questo è un livello del film. L’altro è, come dicevamo, quello post-moderno. Carpenter imbeve Fuga da New York di un’estetica sporca e grezza, ma ovviamente studiatissima. Il film è davvero un B-movie, in quanto girato con un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – e dunque non può permettersi di strafare. Carpenter lo gira con un rigore esemplare, tira dritto senza fronzoli fino alla fine e non devia mai dal suo percorso narrativo e concettuale. Per risparmiare, la produzione girò gran parte delle scene di Manhattan a East St. Louis, Illinois, l’altra faccia della prospera St. Louis, appena dall’altra parte del fiume Mississippi, in Missouri. East St. Louis era stata trovata dal location manager Barry Bernardi, spedito dalla produzione a cercare “la peggiore città in America”. Parte della città era stata devastata da un incendio nel 1976, e tutto questo appare nel film. Con un budget del genere era impossibile costruire quegli scenari in studio, e oltretutto lo scenografo Joe Alves lo aveva escluso per evitare che il film puzzasse di set. East St. Louis era perfetta così com’era, decadente e distrutta. Carpenter persuase addirittura l’amministrazione a staccare le luci pubbliche su dieci isolati durante la notte.
Nel film vediamo una serie di volti più o meno noti all’epoca. Harry Dean Stanton, che proveniva, tra gli altri, da Alien. Adrienne Barbeau, all’epoca moglie di Carpenter e già star di Fog e Pericolo in agguato, film per la TV diretto da Carpenter sul cui set i due si erano innamorati. Isaac Hayes, futuro Chef di South Park e compositore della leggendaria colonna sonora di Shaft (il fatto che Carpenter, compositore dei suoi stessi film, avesse incluso nel cast un musicista deve pur voler dire qualcosa, anche se non so di preciso cosa). Ma a confermare la natura citazionista del film sono le presenze di Ernest Borgnine, attore della vecchia Hollywood qui nei panni di un vecchio tassista che le ha viste tutte, ha sempre vissuto a New York e ama i musical teatrali, e soprattutto Lee Van Cleef, omaggio semovente agli spaghetti western di Sergio Leone.
Non è l’unico, ovviamente. Kurt Russell interpreta Jena/Snake come se fosse uno degli uomini senza nome di Clint Eastwood, di cui imita anche la voce sussurrata e monotona. Russell era alla sua seconda collaborazione con Carpenter dopo il film per la TV Elvis, il re del rock. Ma potremmo dire che è qui che nasce davvero il sodalizio più importante della carriera di Carpenter. È con Jena che i due entrano veramente in sintonia, e Russell esce finalmente dall’ombra dei ruoli Disney per diventare grande. È qui, insomma, che Kurt Russell diventa il Kurt Russell che conosciamo, il macho spigoloso e auto-ironico, con gli occhi di ghiaccio di uno che potrebbe sbroccare da un secondo all’altro e tagliarti la gola.
Snake Plissken è materiale da romanzo pulp, un anti-eroe dal look iconico mutuato dai fumetti e dalle serie TV, dove i protagonisti dovevano essere istantaneamente riconoscibili e memorabili. Non siamo poi così distanti da quanto fatto con Indiana Jones.
Dietro le quinte, Carpenter si circonda di una squadra di collaboratori fidati che include il direttore della fotografia Dean Cundey (Halloween, Fog, e poi Ritorno al futuro, Jurassic Park), la produttrice Debra Hill (Halloween, Fog) e l’assistente alla regia Larry Franco (Elvis, Fog). Ai matte paintings, e alla direzione della fotografia per gli effetti visivi, troviamo un giovane James Cameron (nella foto), all’epoca impiegato nella scuderia del guru dei B-movie Roger Corman. Non accreditata, Jamie Lee Curtis dà la voce al computer e alle registrazioni che si sentono nel film.
Il risultato di tutto questo è un film epocale, spartiacque nella carriera di Carpenter e uno dei suoi maggiori successi da lì in poi. Certamente l’unico vero successo al botteghino della coppia Carpenter-Russell. Un film che per certi versi è invecchiato – è sempre rischioso proporre storie ambientate nell’immediato futuro – ma che d’altra parte ha azzeccato alcune visioni del futuro davvero inquietanti nella loro lungimiranza. Non ditemi che non provate un brivido ogni volta che rivedete la scena in cui un gruppo di terroristi, dopo aver dirottato l’Air Force One, si schianta deliberatamente su New York, vent’anni prima dell’11 Settembre.