Sull’assegno divorzile le decisioni dei giudici coprono i buchi della giustizia

Erich Fromm affermava che ” l’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi”

Il problema è che oggi, in tema di sentimenti e di relazioni amorose, non si capisce bene quali rischi si corrano in alcune situazioni dove la legge è rimasta silente.

Una di queste è certamente la convivenza tra due persone, una delle quali beneficia di un mantenimento da parte dell’ex coniuge.

E dove non arriva la legge, il vuoto viene colmato dai giudici che, spesso, con sentenze che smentiscono in un sol colpo quelle del giorno prima, gettano in uno stato di psicodramma chi si trova tra ” l’incudine e il martello”.

E’ ciò che è successo con la sentenza n. 32198 del 5 novembre 2021 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che scrive più o meno così: tu Stato avevi pronto un progetto di legge dal 2019 con cui potevi adeguarti ad altri Paesi europei (come Francia, Spagna e Germania), ma non l’hai fatto sicché oggi io – potere giudiziario – nell’applicare la legge non posso attribuirgli il senso di una norma che non esiste.

E siccome non posso farlo, scrive, allora ti dico la mia.

Il progetto di legge di cui la sentenza citata parla è quello che prevedeva la perdita definitiva, da parte del coniuge, dell’assegno divorzile nel caso di nuove nozze o dell’instaurazione di una convivenza avente carattere di stabilità.

Questa normativa, che sarebbe stata in linea con quella dei Paesi sopra menzionati nonché – soprattutto – con l’orientamento giurisprudenziale più recente, avrebbe valorizzato il fatto che la scelta di vita dell’ex coniuge che sceglie di formare una nuova famiglia, anche di fatto, sia per sua essenza irreversibile e determini l’automatico venir meno dei presupposti per riconoscere (o continuare a godere) un assegno divorzile.

Visto però che l’iter parlamentare è ancora lungi dal completarsi – anzi tale progetto è stato accantonato per dedicarsi ad altro – le Sezioni Unite rivedono tutto l’assetto e l’effetto è dirompente.

O quasi, visto che poi a tutto bisogna fare ‘la tara’.

Tacciano quindi gli strilloni che gridano alla retromarcia oscurantista e leggano bene.

Le Sezioni Unite non dicono che la convivenza more uxorio del coniuge che chieda un assegno divorzile sia irrilevante, anzi, ne ribadiscono l’incidenza sulla futura decisione giudiziale.

Affermano soltanto il principio per cui non vi possa essere, in automatico (e qui sta il punto), l’esclusione del diritto a percepire l’assegno divorzile.

Gli Ermellini di Piazza Cavour forniscono un indirizzo a tutti i Giudici della famiglia affinché esaminino le fattispecie che hanno davanti non già con la scure del “convivi quindi non hai diritto ad alcunché, né ora nè mai” ma li invitano a fermarsi e approfondire le dinamiche del matrimonio.

Se la parte debole sia priva di mezzi adeguati o nell’impossibilità di procurarseli (primo presupposto), se tale condizione scaturisce, in costanza di matrimonio, da un apprezzabile sacrificio alle sue potenzialità di carriera per servire un progetto familiare che l’ha destinata a mansioni tipicamente domestiche (cura dei figli e della casa), e comunque sia provato che – in questo modo – abbia offerto un contributo alla crescita professionale dell’altro coniuge (secondo presupposto), allora io Giudice non posso escludere a priori il suo diritto a percepire un assegno divorzile quantomeno nella sua componente cosiddetta ‘compensativa’, ossia quella che sostanzialmente ripaga questi sacrifici.

Le Sezioni Unite, infatti, ripetono per tutto il corso delle articolate motivazioni, che se la componente ‘assistenziale’ viene definitivamente meno con la convivenza post-matrimoniale, quella perequativa-compensativa sopra descritta non può magicamente sparire: si farebbe un torto ai precetti che scaturiscono dal matrimonio così come alla sentenza del 2018 delle Sezioni Unite che ha ridefinito i contorni dell’assegno divorzile.

Semmai il coniuge che abbia instaurato una convivenza successiva avrà rilevanti oneri probatori, tutt’altro che agevoli: si troverà ai piedi di un’erta che gli imporrà di dimostrare tutti quegli elementi/presupposti sopra indicati (che debbono sussistere contemporaneamente) e persuadere il Giudice che sì, convive, ma ciò che ha fatto durante il matrimonio non può essere archiviato.

Non sfugga infatti che il caso che ha stimolato la sentenza delle Sezioni Unite riguardava quello di una donna sposata da molti anni con un marito certamente più benestante, una donna che aveva sacrificato il proprio lavoro per badare ai figli e al marito stesso e che, dopo la separazione, aveva provato a rifarsi una vita con un altro uomo, un operaio che percepiva circa mille euro al mese.

Insomma, una situazione in cui – in effetti – i ragionamenti sviluppati dalle Sezioni Unite calzano a pennello.

Ma non ogni caso è sovrapponibile a quello e la Suprema Corte lo sa benissimo, lo scrive chiaramente e rimanda ai Giudici di famiglia affinché facciano tesoro dei principi affermati, lasciandoli liberi di decidere in un senso o nell’altro purché motivino adeguatamente in linea con i principi da ultimo espressi.

Cosa dire quindi, alla fine di tutto: piaccia o non piaccia questo è il risultato di un Paese che non cambia mai e il cui potere legislativo latita tra litigi e trame politiche, tanto da portare raramente a termine una legge, così esponendosi all’intervento del supremo organo giurisdizionale che – senza colpa – è costretto a scrivere ciò che altrove giace incompiuto.

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