domenica, 23 Febbraio 2025
Sull’isola di Bergman – La recensione del film di Mia Hansen-Løve
Contaminare realtà e finzione è un espediente piuttosto comune nel cinema intimista, dove l’identità dell’autore o dell’autrice si confonde spesso con quella dei personaggi. Per Mia Hansen-Løve, nello specifico, i film rappresentano un mezzo di rielaborazione personale, pur senza essere propriamente autobiografici: un discorso che vale anche per Sull’isola di Bergman, dove gli echi del suo vissuto sono impossibili da ignorare.
La vicenda ruota attorno a Chris (Vicky Krieps) e Tony (Tim Roth), coppia di cineasti che si trasferisce sull’isola di Fårö per scrivere in tutta calma i rispettivi copioni. Fu qui che Ingmar Bergman trascorse gran parte della sua vita, girandovi capolavori come Persona e Scene da un matrimonio. La coppia comincia quindi a esplorare i luoghi del maestro svedese, ma Chris sente la mancanza della figlia June e vive una profonda crisi creativa. Non sapendo come concludere la sua sceneggiatura, decide di esporne la trama al marito: vediamo così dipanarsi la storia di Amy (Mia Wasikowska) e Joseph (Anders Danielsen Lie), ex amanti che si ritrovano proprio a Fårö per un matrimonio, e riconoscono che il loro amore non è mai realmente finito.
Due piani narrativi, insomma, ma anche tre livelli di realtà: Amy è infatti il “doppio” di Chris, che a sua volta è un riflesso di Mia Hansen-Løve. Anche la differenza anagrafica tra Chris e Tony ricorda quella tra la regista francese e l’ex compagno Olivier Assayas, ulteriore prova che Sull’isola di Bergman funga quasi da seduta di auto-analisi. Il culmine è rappresentato dal cortocircuito tra verità e finzione cui assistiamo verso la fine, quando il gioco metanarrativo si fa ancora più palese: un momento straniante, che Hansen-Løve gestisce con notevole acume. Non c’è infatti alcuna cesura tra i livelli del racconto, il passaggio avviene in scioltezza e senza preavviso. È come se il film aprisse una finestra sulla mente e sull’inconscio della regista, per mostrarci la stratificazione dei suoi pensieri nella concezione di un’opera.
Bergman è il trait d’union della narrazione, l’elemento ricorrente che stimola riflessioni e confronti. Ne deriva una discussione molto attuale sulla separazione tra l’artista e la sua arte, e sulla difficile convivenza tra la sfera creativa e quella familiare. È però il dialogo con un invitato al matrimonio, nella storia di Amy, a chiarire il fascino che Bergman esercita su Hansen-Løve: stiamo infatti parlando di un cineasta che ha realizzato capolavori a partire dai suoi demoni interiori, e la regista francese – in tutte le sue tre versioni – sente un forte legame con questo modo di concepire l’arte. Certo, è anche un po’ troppo indulgente verso sé stessa, e verso un approccio che tende solo verso l’autorappresentazione.
Ciò che ne risulta è un film interessante, non privo di fascino, ma un po’ irrisolto; o, comunque, risolto nel modo più semplice. C’è qualcosa di elitista nella focalizzazione su questi due personaggi, e anche nel modo in cui Hansen-Løve guarda esclusivamente dentro di sé, come se vivesse in una dimensione separata, ben lontana dalla nostra quotidianità. Il limite principale di Sull’isola di Bergman, forse, è proprio questo: non riesce a trasformare l’individuale in universale.