Terranova, il giudice che accusava i corleonesi

(di Franco Nicastro) Quando Luciano Liggio e i suoi
amici corleonesi – Totò Riina e Bernardo Provenzano –
trasferirono la mafia dalla campagna alla città e conquistarono
il mercato della droga il primo a cogliere il senso delle nuove
dinamiche di Cosa nostra fu il giudice Cesare Terranova. Fu lui
a mandare a processo vecchi e nuovi boss in un’epoca in cui la
mafia controllava indisturbata gli affari del sacco di Palermo e
i grandi traffici criminali.
    Per questo Terranova fu ucciso assieme al suo collaboratore
Lenin Mancuso, un poliziotto di provata esperienza che girava
con lo schedario dei mafiosi latitanti o da tenere d’occhio. Era
il 1979, un anno cruciale della storia della mafia: si era
aperto con l’uccisione del giornalista Mario Francese ed era
proseguito con la soppressione del segretario della Dc
palermitana Michele Reina, l’agguato al capo della squadra
mobile Boris Giuliano e infine con la morte di Terranova e
Mancuso. La storia dei protagonisti di quella stagione, che
aveva aperto la sfida allo Stato con metodi terroristici, è
rievocata nel film “Il giudice e il boss” di Pasquale Scimeca
che è anche autore della sceneggiatura con il giornalista
Attilio Bolzoni. Gaetano Bruno interpreta Terranova, Peppino
Mazzotta è Lenin Mancuso, Claudio Castrofilippo dà il volto a
Luciano Liggio. Il film, presentato a Palermo, segue il filo del
confronto tra il giudice Terranova e il suo acerrimo nemico
Luciano Liggio. Una rivalità che è all’origine delle inchieste
di Terranova negli anni Sessanta culminate con i processi di
Catanzaro e di Bari conclusi con alcune condanne per
associazione semplice. Solo nel 1982 nell’ordinamento penale
sarebbe stato introdotto il reato di associazione mafiosa.
    “Le inchieste di Terranova tracciavano il profilo di una
mafia che stava cambiando pelle”, dice Scimeca. “Ho cercato di
ricomporre quel pezzo mancante della storia di Cosa nostra. E ho
cercato di ricomporre il quadro dei rapporti con la politica,
l’economia e la pubblica amministrazione. Ma c’è un altro
tassello che va approfondito: Terranova e Mancuso, lavoravano
fianco a fianco. E per questo dovevano morire insieme”. Per
Scimeca la mafia avrebbe potuto eliminare Terranova
sorprendendolo da solo con la moglie magari durante le vacanze
estive nelle Madonie. “Ma doveva morire anche Mancuso – è la
tesi del regista – perché era la memoria delle indagini svolte
con il giudice”.
    Terranova e Mancuso avevano creato un modello investigativo
che seguiva i lineamenti di un sistema criminale unitario di cui
avrebbe parlato Tommaso Buscetta ma solo vent’anni dopo. Quel
metodo investivo avrebbe ispirato le esperienze di Giovanni
Falcone, Paolo Borsellino, Gaetano Costa, Rocco Chinnici.
    Il film, che esce il 25 settembre, anniversario del delitto,
traccia anche il profilo umano del giudice e del suo
collaboratore, osserva Francesca Terranova, nipote del
magistrato, che ha partecipato alla presentazione con Carmine
Mancuso, figlio di Lenin. due storie parallele nelle quali
svolge un ruolo fondamentale Giovanna Giaconia, la moglie del
magistrato protagonista, prima e dopo il delitto, di una forte
testimonianza civile.
   

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