mercoledì, 5 Febbraio 2025
Tranchées e la normalità della guerra: intervista al regista Loup Bureau
Quando lo incontriamo, Loup Bureau ci dà subito l’impressione di essere un ragazzo appena uscito dall’università, volto fresco, voce gentile e quasi timida. Niente lascerebbe pensare che questo “ragazzo” abbia già visto la guerra e rischiato la vita in più di un’occasione per il suo lavoro. Eppure è così.
Nel 2017, quando era un reporter e stava seguendo il conflitto tra curdi e siriani per TV5 Monde, Bureau venne arrestato dalle autorità turche con l’accusa di terrorismo e condannato a 25 anni di carcere. Solo l’intervento delle autorità francesi permise il suo rilascio dopo 52 giorni. Per il suo debutto come documentarista, Bureau ha scelto un argomento altrettanto difficile, la guerra russo-ucraina in atto dal 2014, e per portarlo sullo schermo ha rischiato ancora una volta la vita.
Il risultato è Tranchées, presentato fuori concorso a Venezia. Un film che immerge lo spettatore nelle trincee del conflitto, fotografato in un bianco e nero che, nell’idea di Bureau, dovrebbe rimandare alle immagini della Prima Guerra Mondiale per sottolineare come nulla sia mai cambiato da un secolo a questa parte. “Ho iniziato a girare coi miei soldi, non avevo una produzione perché non conoscevo il mondo del cinema”, ci ha spiegato nel corso della nostra intervista. “Mi sono preso molti rischi personali per fare questo film”.
Come è nato il progetto Tranchées?
Ho iniziato a seguire il conflitto in Ucraina nel 2014, come giornalista. C’erano molti ucraini della mia età, che avevo conosciuto durante la rivoluzione, che si stavano arruolando per andare al fronte, senza avere idea di come sarebbe stato. Per me, che avevo la stessa età, fu sconvolgente. Sentivo che dovevo fare qualcosa e iniziai a seguire la guerra come giornalista. Ma poi accadde qualcosa che mi fece cambiare la prospettiva sulla guerra: l’attenzione dei media si allentò. Sapevo che dovevo trovare un nuovo modo per informare la gente e ho scelto di fare un film.
Tranchées mostra la normalità della guerra, la banalità e la noia. Normalmente in un film di guerra vediamo solo le azioni e l’eroismo, qui invece mostri ciò che di solito non vediamo…
È vero. La guerra diventa una routine, un lavoro come un altro: ci si alza, si va a combattere e si torna a dormire. È come un lungo letargo con in mezzo momenti di estrema violenza quando la guerra appare. Ma quello che non viene detto di solito nei documentari è che ogni soldato si deve adattare alla routine quotidiana della guerra. Non lo mostriamo perché siamo più colpiti dalla violenza, dagli scontri. Ma, per la maggior parte del tempo, in guerra la gente aspetta. Volevo mostrare quello che ho visto in quelle lunghe giornate nelle trincee. Ovviamente gli scontri hanno la loro parte, ma oltre a questi ci sono tanti momenti di letargia in cui i soldati mettono in discussione loro stessi e le proprie vite.
Dal punto di vista tecnico, come hai realizzato il film?
È stato molto complicato perché ho fatto tutto da solo, sonoro, immagine, fotografia. Avevo solamente un interprete, che era anche il mio mediatore e mi spiegava le misure di sicurezza. Ma ovviamente c’è grande promiscuità nelle trincee, tanta gente in piccoli spazi. Non potevo permettermi di avere una troupe. E poi, per entrare in confidenza con i soldati, era meglio essere soli. Dovevo indossare un giubbotto antiproiettile tutto il tempo. Ci sono molte cose dietro le quinte che non si vedono nel film. È stata molto dura, tecnicamente parlando.
Come hanno reagito alla tua presenza? Ti hanno accettato? Oppure si sentivano a disagio ad avere una persona che li filmava?
Penso che sia tutta questione di tempo, sensibilità e approccio. Ho fatto scouting prima, non mi sono presentato dal nulla. Mi ci è voluto del tempo per entrare in contatto con loro e stabilire un rapporto. Nelle prime settimane non ho filmato niente, volevo che capissero perché ero lì. Dovevo guadagnarmi la loro fiducia, ed è molto complicato guadagnarsi la fiducia di una persona che si trova in una situazione così particolare e che rischia la vita. I soldati, quando ti parlano, ti regalano cose molto speciali, intime e preziose. Ci vuole tempo. Il mio mediatore mi ha aiutato molto perché è un ex soldato. Sapeva i problemi dei soldati in prima linea, i problemi psicologici. Ne abbiamo discusso molto. Alcuni hanno capito cosa stavo facendo, altri no, ma fa tutto parte del processo del fare film.
Quanto tempo ci è voluto per girare Tranchées?
Tre mesi. Stavo lì tutto il tempo, dormivo nei bunker, vivevo con loro. Tre mesi sono un tempo molto lungo per un documentario. Di solito i registi restano per qualche settimana. Prima di tutto perché è pericoloso, e in secondo luogo perché non hanno l’autorizzazione per restare così tanto. È l’esercito nazionale, ci sono uffici stampa e persone che dovrebbero starti dietro. Nel mio caso abbiamo negoziato con il comando locale. Il comando centrale non sa del film, e sarà molto interessante vedere la loro reazione. Non avevamo nessun addetto stampa e dormivamo nelle trincee, cosa che normalmente non è consentita.
C’è una scena, che mi ha colpito molto, in cui uno dei soldati dice di non concepire l’idea di poter morire e non rivedere più i suoi genitori. A vent’anni è normale non concepire la propria mortalità. Pensi che questo aiuti i soldati ad affrontare la guerra?
Certamente. Quello è stato un momento interessante, perché quel ragazzo era ormai in guerra da un anno e mezzo e ancora non concepiva l’idea di poter morire. Penso che abbia a che fare con il senso di invicibilità che abbiamo quando siamo giovani. Per lui la guerra era iniziata quando aveva 14 anni, sette anni prima. Era cresciuto con la guerra e aveva opinioni diverse da quelle dei soldati più anziani. Penso che avesse visto molti amici andare in guerra, e magari anche parenti. Quando vedi che tutti quanti vanno in guerra pensi che sia normale.
Perché hai scelto il bianco e nero?
Perché volevo fare un parallelo con i film di guerra e con le immagini della Prima Guerra Mondiale. Abbiamo visto tutti le foto nei libri di scuola o i film sulla Prima Guerra Mondiale. Quando arrivi nelle trincee la prima volta pensi subito a quello. Mi ha colpito molto e ho capito subito che anche il pubblico ne sarebbe stato colpito. Il bianco e nero era anche più adatto alla mia fotografia simmetrica. Le trincee sono uno spazio con molte luci e ombre ed era in qualche modo più gradevole riprenderle in bianco e nero, piuttosto che essere distratti da tutti i colori.
Però alla fine il colore lo usi. È come se volessi dire che il conflitto è sempre bianco e nero a differenza della vita civile…
Avevo deciso sin dall’inizio di passare al colore quando fossimo usciti dalle trincee, perché è una situazione completamente diversa. E inoltre riflette come si sentono al momento, la gioia che provano quando capiscono che è finita. Ma questo è anche il motivo per cui poi torniamo al bianco e nero, perché non è davvero finita. Molti soldati scoprono che forse la parte più difficile inizia al ritorno, perché non c’è nessun supporto psicologico da parte delle autorità. Ci sono molti soldati depressi. È un grosso problema in Ucraina oggi.
Come hai fatto a ottenere queste confessioni? Hai parlato ai soldati uno alla volta?
Abbiamo provato a prenderli uno per uno. Parlare a un gruppo non è come ascoltare la confessione di una persona singola. Andavamo da un soldato e dicevamo: “Vieni con noi, ci allontaniamo di una ventina di metri e ti farò qualche domanda”, in modo che non si sentissero sotto lo sguardo degli altri. Ci è voluto parecchio tempo per farli parlare, perché le prime volte mi rispondevano “Sto bene” e basta. È molto da ucraini; in Europa dell’est non parlano molto dei loro sentimenti. È una cultura diversa e ci vuole molto tempo. Ma una volta passato l’ostacolo sono molto aperti. Trovo che gli ucraini siano molto profondi quando riesci a raggiungerli.
I soldati hanno visto il film?
No, ma ci sto provando. Voglio che lo vedano, e sto cercando di organizzare una proiezione in Ucraina per loro.
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