Troisi, 30 anni fa addio al Pulcinella senza maschera

Aveva appena 41 anni e un mondo
ancora da raccontare Massimo Troisi quando il suo cuore cessò di
battere la notte del 4 giugno 1994, nella casa della sorella
Adriana all’Infernetto, vicino al lido di Ostia. Che la sua
impronta sulla cultura napoletana, sull’immagine stessa di
questa gente, sul cinema
e il teatro italiano sia ancora vivida e attuale è confermato
dal successo mondiale del film-ritratto di Mario Martone “Laggiù
qualcuno mi ama”, applaudito in anteprima mondiale al Festival
di Berlino e poi premiato quest’anno con il David di Donatello.
    Tutta la sua vita ruotava intorno al tema del “cuore”,
oggetto fisico che segnò la sua vita a causa di una forte
degenerazione della valvola mitrale causata dalle febbri
reumatiche infantili, ma anche simbolo della sua idea di vita e
di creazione artistica. Pochi napoletani infatti avevano osato –
prima di lui – mettere allo scoperto questo istintivo
romanticismo che Troisi seppe filtrare attraverso una poetica
personale e colta. Per questo la sua arte più che alla lezione
di Eduardo De Filippo va riavvicinata alla segreta malinconia di
Totò o al contrasto tra prepotenza fisica e timidezza segreta di
Buster Keaton. Mimo istintivo, novellatore fluviale,
appassionato cultore di una lingua del popolo che non è semplice
dialetto partenopeo, Massimo Troisi impresse una svolta decisiva
alla scena degli anni ’70 e ’80, dalle apparizioni
cabarettistiche con gli amici de “La Smorfia” (Enzo Decaro e
Lello Arena) in tv, fino al suo cinema fatto di sette regie, da “Ricomincio da tre” (1981) a “Il postino” (1994) firmato
ufficialmente da Michael Radford, e altrettante collaborazioni
come attore-autore tra cui spicca il memorabile “Non ci resta
che piangere” con Roberto Benigni del 1984.
   

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