Un Trattato del Quirinale permanente minerebbe le basi dell’Unione europea

I momenti vitali per uno Stato sono pochi poiché nelle istituzioni tende quasi sempre a prevalere la continuità, ma il caso del Trattato del Quirinale può rientrare tra quei casi in cui lo Stato italiano è chiamato ad esprimere una propria vitalità per non compromettere il proprio futuro. L’oggetto del Trattato è una cooperazione rafforzata con la Francia su vari questioni quali l’industria, la difesa, l’istruzione, la giustizia e la gestione dei confini e le politiche migratorie. Può segnare un momento di integrazione più profonda tra due medie potenze, in cui la Francia gioca nel ruolo dell’azionista di maggioranza e l’Italia di minoranza.

Che un trattato sia opportuno è nella logica delle cose se si guarda lo scenario globale: entrambi i paesi hanno propaggini lunghe ma indebolite nel Mediterraneo; entrambi sono minacciati dall’attivismo della Turchia nel mare nostrum; entrambe le nazioni necessitano di modernizzarsi sul piano industriale; entrambe pretendono una Unione Europea più integrata sul piano economico per risolvere i propri problemi interni e vogliono controbilanciare la Germania sulle politiche di spesa. Tuttavia, la strategia difficilmente può reggere senza forme di legittimazione politica. Per questo è auspicabile che il Trattato del Quirinale, oggi scritto da un manipolo di collaboratori e consiglieri del Presidente della Repubblica, nella sua versione finale venga discusso e poi votato in Parlamento. E sarebbe auspicabile che ciò accadesse prima della firma dell’accordo e non soltanto a cose fatte. Probabilmente non andrà così. Nulla di scandaloso sul piano della prassi istituzionale: i trattati internazionali possono essere siglati dalle diplomazie dei Paesi interessati, senza coinvolgimento di deputati e senatori.

Tuttavia, la relazione tra Italia e Francia non è priva di frizioni negli ultimi anni e su molti dossier, soprattutto economici e finanziari, c’è un rilevante conflitto d’interessi tra i due Paesi. Sottrarre completamente all’assemblea elettiva, e a gran parte del governo, questo genere di accordo non è forse la scelta più saggia sul piano politico. Se tutto viene gestito in stanze ovattate e impenetrabili, chi assicura che le istituzioni italiane stiano tutelando al meglio gli interessi dello Stato? Questo per restare in un discorso di forma che è anche sostanza. In secondo luogo, nel Trattato si predispongono dei tavoli permanenti tra i due Paesi e anche in questo caso un campanello d’allarme dovrebbe scattare. Perché un accordo senza limiti di tempo? Sarebbe convenuto circoscrivere il Trattato entro un orizzonte temporale perché ciò avrebbe permesso sia di darsi un programma di collaborazione più chiaro e sia di verificare, una volta arrivati alla scadenza, come stava procedendo la partnership. Nulla avrebbe impedito di prorogare la cooperazione una volta arrivati alla scadenza.

Ciò sarebbe stata una garanzia soprattutto per l’Italia, il paese più debole tra i due. Anche perché tra qualche anno la politica mondiale sarà diversa da quella di oggi, i governi saranno probabilmente di altro colore e con diversi protagonisti, e potrebbero rivelarsi interessi e posizioni differenti tra i due paesi che dipenderanno da fattori oggi non calcolabili. Invece la Francia, con il suo capitalismo più grande ed organizzato, con la sua intelligence economica ramificata su tutto il territorio e soprattutto oltre confine (SISSE/ISGE), con l’ aggressività dei suoi finanzieri rispetto agli asset italiani, con la coesione della catena di comando del suo establishment politico, amministrativo, finanziario ed industriale potrà trattare senza limiti di tempo con un paese più piccolo, meno organizzato e sempre diviso e instabile come l’Italia. Sarà conveniente per Roma? O questa indeterminatezza senza termine renderà l’Italia sempre più satellitare rispetto alla Francia? La storia darà il suo responso.

C’è inoltre da considerare che la classe dirigente transalpina, come quella di ogni altro Paese, non è monolitica. C’è un’area dell’establishment più assertiva verso l’Italia, che vorrebbe la penisola dipendente dall’Esagono sul piano industriale e finanziario, e ce ne é un’altra più moderata, incline alla cooperazione su numerosi dossier ma senza l’intento di render vassalla l’Italia. È verso questi gruppi del sistema francese che i negoziatori italiani devono orientarsi per interloquire ed è più facile farlo – come sta avvenendo – con un premier forte e accorto come Mario Draghi.

In terzo luogo, l’accordo mostra tutta la debolezza strategica e politica dell’Unione Europea. Nel 2019 le due principali potenze, Francia e Germania, avevano siglato un Trattato simile, quello di Acquisgrana. A breve arriverà quello tra Francia e Italia. In altre parole, i tre principali paesi per popolazione e peso economico dell’Unione hanno siglato tra loro dei trattati bilaterali. Un segno di grande debolezza per una Europa che vuole illudersi di pensare, decidere e agire come un unico corpo istituzionale. E’ l’ennesimo segnale che le volontà dei singoli governi nazionali prevalgono sempre su quelli dell’Unione e che i singoli Stati riescono a combinare molto di più in questo genere di trattative che nel tentativo di mettere d’accordo tutti i paesi membri. Ai trattati che fondano l’Unione Europea si aggiungono quelli tra singoli Paesi come attori internazionali più che europei. Le materie su cui collaboreranno Italia e Francia non troverebbero mai la convergenza di tutti gli Stati membri a livello europeo per far avanzare l’integrazione su nuove materie. Emergono così dei sotto-governi, o delle sotto-governance se volessi usare l’eurocratese, nelle mani dei paesi maggiori. Con buona pace del superamento del bilateralismo e del metodo intergovernativo tanto cari agli europeisti più ingenui. In conclusione, sorge un’ultima riflessione. Sul piano economico l’Italia è molto più collegata e deve molto di più in termini di catene del valore alla Germania che alla Francia, perché allora non allargare questa forma di collaborazione anche alla principale potenza europea? O, in alternativa, perché non aprire il fronte di un nuovo trattato con i tedeschi? La classe dirigente italiana è sempre pronta a subire il fascino di Parigi e ad aver timore di Berlino e delle sue rigidità. Tuttavia, spesso questo è uno stereotipo che l’élite italiana si è voluta costruire. Senza una cooperazione più forte e stretta con la Germania il nostro futuro è meno sereno e più buio. E bisognerebbe anche chiedersi quanto dietro lo stereotipo della Germania “cattiva” si nasconda la volontà e la capacità di manovra francese nel far passare questo messaggio nell’opinione pubblica e nelle istituzioni italiane al fine di mantenere un rapporto esclusivo e di asimmetrico vantaggio con il nostro paese. Una domanda che fino ad oggi nessuno o quasi sembra essersi posto.

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