venerdì, 22 Novembre 2024
Via della seta o trappola del debito
Entro pochi mesi il nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, deve decidere se rinnovare o meno il memorandum sulla Via della seta siglato da Giuseppe Conte con la Cina nel 2019. Per quanto venga data per certa l’intenzione del Governo di non rinnovare l’adesione dell’Italia, unica tra i G7, alla Via della seta è lecito attendersi delle resistenze da Pechino.
La Nuova Via della Seta, lanciata dieci anni fa, è, di fatto, il primo grande progetto geopolitico di Pechino. Tra le ragioni della nascita, fortemente voluta da Xi Jinping, di quella che è nota nel mondo come “Belt and road initiative”, abbreviata in BRI, vi era la necessità di gestire la sovraccapacità che il paese aveva accumulato in risposta alla grande crisi finanziaria del 2009/2010.
Prima del 1700, l’Asia deteneva circa il 60% della produzione globale ma negli anni 50, quella percentuale si era ridotta al 15%. Da allora l’aumento della produzione è stato continuo ed oggi l’Asia costituisce circa il 40% della produzione economica. Di pari passo alla crescita economica c’è anche la crescita infrastrutturale di questi paesi che il Partito Comunista Cinese, PCC, ha cercato di intercettare e controllare.
Dopo che le aziende cinesi hanno costruito a tempo di record aeroporti, stazioni e linee ferroviarie in tutto il paese, e la domanda interna era stata progressivamente soddisfatta, decine di migliaia di posti di lavoro dipendevano ancora dalle attività delle imprese statali. Queste aziende hanno quindi esportato le loro attività oltre i confini della Cina rendendo in questo modo la BRI funzionale alla sopravvivenza del PCC: la crescita economica e l’occupazione sono tra le “condicio sine qua non” per la permanenza al potere del regime comunista.
La Cina guarda alla BRI anche come una fonte vitale di materie prime, compresi minerali come litio, nichel, rame o cobalto. L’approccio solitamente utilizzato è “progetti per risorse” dove le banche di investimento e gli investitori cinesi finanziano un’ampia gamma di progetti infrastrutturali che vengono realizzati con contratti di forniture a lungo termine alle imprese cinesi e pagati con l’esportazione di materie prime.
Inoltre la BRI è anche un veicolo, per le aziende cinesi, di acquisizione di terreni all’estero per soddisfare la crescente domanda interna Al 2020 le aziende cinesi detenevano il controllo di circa 6,5 milioni di ettari di terreno destinati all’agricoltura, alla silvicoltura e all’estrazione mineraria in tutto il mondo. Molti degli attuali investimenti in Africa sono finalizzati all’accesso per l’estrazione di materie prime: si pensi alla Tanzania, alla Guinea o alla Repubblica Democratica del Congo.
Acquisizione di terreni all’estero, dati in milioni di ettari.
I paesi che accettano gli investimenti cinesi sono esposti a potenziali rischi, in quanto diventano sempre più dipendenti dall’Impero di Mezzo al punto che molti analisti ritengono la BRI una enorme trappola del debito citando il caso dello Sri Lanka e il porto ceduto in locazione alla China Harbor Engineering (CHEC) per 99 anni per ripagare un debito contratto. Più realisticamente si tratta di una contesa tra Cina ed Stati Uniti sull’accesso ai finanziamenti per i paesi in via di sviluppo che rischia di tradursi nella più grande crisi del debito della storia se si considera che potrebbe coinvolgere oltre 700 milioni di persone.
Va anche sottolineato come molti degli abitanti di questi paesi abbiano sperimentato negli ultimi decenni l’ipocrisia delle politiche occidentali e conseguentemente la marginalità del loro contributo allo sviluppo. Così mentre Pechino vede l’FMI come un veicolo di potere occidentale, in considerazione del fatto che gli USA hanno il maggior numero di diritti di voto nell’organizzazione, anche in molti paesi dell’Africa l’FMI e la Banca mondiale sono considerati uno strumento di influenza occidentale.
Rapporti di forza all’interno dell’FMI. Dati 2022.
Ma il pericolo della crisi resta reale. Secondo l’FMI, 21 paesi sono attualmente insolventi o hanno problemi a rimborsare i loro debiti: dall’Egitto al Pakistan, dallo Sri Lanka al Laos. E se da un lato la strategia cinese della Via della Seta è fare affari con chiunque, politici corrotti compresi, dall’altro si evidenzia la mancanza di piani concreti da parte dell’Occidente. I diritti umani o le strutture democratiche non sono un criterio per Pechino che anzi, dove gli stati occidentali si ritirano, interviene sfruttando l’avidità dei politici locali.
Da tempo il problema è latente ma ora l’aumento dei tassi di interesse e gli alti prezzi dell’energia potrebbero condurre al fallimento di un paese che oltre, all’impatto negativo sul più grande creditore, potrebbe innescare una serie di fallimenti a cascata e favorire le tensioni interne agli stati fino a condurli sull’orlo della guerra civile. Ed è per questo che ora le contrapposizioni non favoriscono nessuno: come la posizione cinese nei contratti che prevede clausole che limitano le possibilità di ristrutturazione del debito di un paese con il gruppo di nazioni noto come “Club di Parigi”.
Oggi la diffidenza regna sovrana: da un lato l’FMI e i paesi occidentali sarebbero disponibili a cancellare parzialmente i debiti o fare nuovi prestiti dall’altro il rischio concreto è che nuova liquidità potrebbe finire per ripagare le esposizioni di questi paesi nei confronti di Pechino. La Cina, dal canto suo, persegue una strategia di nuovi prestiti o di ristrutturazione del debito per mantenere ed aumentare la sua influenza sul debitore spesso mantenendo il diritto di chiedere il rimborso in qualsiasi momento utilizzando i finanziamenti come strumento di pressione geopolitica.
I riflessi di questa politica si sentono anche in Europa dove è evidente il tentativo del Dragone di minare l’unità europea e rompere l’alleanza transatlantica. Più di due terzi dei paesi membri dell’Unione europea hanno formalmente aderito alla BRI ricevendo in cambio grandi investimenti infrastrutturali cinesi, si pensi al porto del Pireo o la ferrovia Budapest-Belgrado. Nel contempo Pechino cerca nuovi alleati al di fuori dei 27, nei paesi dei Balcani occidentali, come la Serbia, e nell’Europa orientale.
E necessario che sia l’Europa a dare una risposta, con le proprie iniziative sugli investimenti infrastrutturali, alle lusinghe economiche del Dragone che invece va riconosciuto per quello che è: un concorrente economico ed un rivale sistemico, che grazie alla sua governance, una spietata dittatura, opera in un universo parallelo di sostegno statale e di concorrenza sleale.